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“Dio non è ad Auschwitz”. Così Elie Wiesel inizio’ la sua “battaglia” contro Dio

WEB ELIE WIESEL HOLOCAUST WRITER © lev radin Shutterstock

© lev radin / Shutterstock

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 04/07/16

Lo scrittore di origine ebraiche, morto ad 87 anni, autore de "La notte" e il suo rapporto conflittuale con la fede

Un rapporto conflittuale con Dio, vissuto all’ombra dei lager nazisti.

Elie Wiesel, lo scrittore americano di origine ebraica, sopravvissuto all’Olocausto e Premio Nobel per la pace nel 1986, morto a Boston a 87 anni, fu prigioniero nei campi di concentramento di Auschwitz, Monowitz e Buchenwald (Il Post, 4 luglio).

Visse in quei luoghi del terrore tra il 1944 e il 1945.

WIESEL E PRIMO LEVI

Ci mise però molti anni a raccontare quello che aveva visto. Diversamente da Primo Levi che, appena tornato a casa da Auschwitz sentì impellente il bisogno di scagliare sulla pagina quella esperienza, come unica strada per provare a ricominciare a vivere, Wiesel tacque per almeno dieci anni: non voleva né scrivere né parlare di quello che aveva attraversato durante la Shoah.

“LA NOTTE”

Ma quando cominciò fu un fiume in piena, in yiddish, “Un di velt hot geshiving” (“E il mondo tacque”, una specie di immensa bozza di autobiografia sulla quale sarebbe poi tornato varie volte, affinando la scrittura, rendendo tutto via via più lucido).

Da quelle originarie 900 pagine fu tratto La notte, uscito nel 1992. Da questo libro in poi, Wiesel è diventato uno dei grandi cantori di quell’orrore (La Stampa, 3 luglio).

DALLA FORCA A SHAMGOROD

Come pochi altri intellettuali aveva sfidato la fede, aveva sfidato Dio. Vuoi quando lo vede con rabbia e rassegnazione e un dolore indicibile appeso alla forca nel corpo di un bambino impiccato che lancia al mondo i suoi ultimi palpiti.

Vuoi quando scrive Il processo di Shamgorod: un testo bellissimo e terribile sull’assenza di Dio, sull’ingiustizia del mondo, dove, a differenza del biblico Giobbe, all’uomo non resta rassegnazione ma solo un’interrogazione senza risposta. E uno sgomento muto di fronte al male, alla sua presenza così incomprensibilmente invadente.

Ma quali sono le origini del suo rapporto conflittuale con Dio?

I LAGER

Tutto nacque nei campi di concentramento. Il simbolo inciso a fuoco sulla pelle e sulla vita dell’adolescente nei lager si tramutò in una propulsione inesausta: «In verità, per l’ebreo che io sono, Auschwitz rappresenta una tragedia umana ma anche – e soprattutto – uno scandalo teologico. Per me è un fatto innegabile: è impossibile accettare Auschwitz con Dio né senza Dio. Ma allora come comprendere il Suo silenzio?» (Agensir, 3 luglio)

E’ qui che Dio divenne il suo interlocutore, Colui che non si staccò mai più dal suo fianco, dal suo io, dal suo pensiero e da tutta la sua vita.

LE GRIDA DI GEREMIA

Lo scandalo religioso, il dolore umano, le continue vessazioni e violenze sotto tutti i paralleli e i meridiani del nostro pianeta furono per Wiesel ragione di vita, nonostante altri problemi, questa volta fisici che lo tormentarono, come quelli di natura cardiaca.

Ma superata l’emergenza fisica e psicologica, il suo contenzioso con Dio continuo’: «Io ammetto di essermi messo contro il Signore, ma non l’ho mai rinnegato. Rivendico il grido di Geremia nelle ‘Lamentazioni’ quando evoca la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme: ‘Tu hai ucciso i tuoi figli senza pietà! Tu hai assassinato il tuo popolo senza compassione!’”.

Tuttavia, Wiesel aggiunge il suo grido: “Cosa? Dio un assassino? Certo, tra noi sopravvissuti, alcuni hanno protestato contro il silenzio divino! Ma nessuno ha avuto l’audacia di chiamare Dio ‘assassino’!».

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IL SORRISO DI DIO

Scrive ancora nella sua narrazione che Elijah, il nipotino prediletto da Elie, gli dice: «Nonno, tu sai che io ti amo; e io so quanto tu stai soffrendo. Dimmi: se io ti amo di più, tu soffrirai meno?». La reazione, sofferta e ponderata dello scrittore, rivela mente e spirito: «In quel momento, ne sono convinto, Dio contempla la Sua creazione sorridendo».

PREMIO NOBEL

Wiesel ricevette il Premio Nobel per il suo impegno a parlare della situazione degli ebrei nel mondo (quelli russi negli anni dell’Unione Sovietica, ma anche quelli etiopi) e di quella di altre minoranze che hanno subito ingiustizie e genocidi, ad esempio in Cambogia, in Sudafrica e in Ruanda

Lo scrittore fu premiato perché dopo la guerra era divenuto – si lesse nella motivazione – «messaggero per l’umanità». «È per gli esseri viventi che scrivo – affermava lo scrittore – e al tempo stesso per riconciliarli con i morti. Forse una tremenda ira li separa ed ecco perché, penso è giunta l’ora di cercare di riconciliarli» (Avvenire, 4 luglio).

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