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Genocidio armeno: “Ogni notte mio padre gridava”

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Marinella Bandini - Aleteia - pubblicato il 20/06/16

Armin T. Wegner ha fotografato il massacro. Il racconto del figlio Mischa: l'urlo era parte della nostra vita, è morto milioni di volte

Armin T. Wegner ha gridato nel sonno fino all’ultimo giorno “sognando e risognando le tragedie viste e quelle subite”. Le immagini del massacro armeno erano impresse nella sua mente come nelle sue foto, che hanno immortalato il primo genocidio del XX secolo. E urlava la sua pena di esiliato dalla Germania, lui tedesco che aveva cercato di mettere in guardia il suo popolo dal ripetere simili orrori e che per questo era stato prima internato in un campo di concentramento e poi esiliato, spogliato della sua dignità, un dolore mai superato. Oggi quel grido può trovare finalmente pace dopo che la Germania ha “non solo riconosciuto il genocidio degli armeni, ma anche ammesso le proprie responsabilità, un mea culpa incredibile” sottolinea Mischa Wegner, il figlio che Armin ha avuto dalla seconda moglie. Attraverso i suoi occhi ripercorriamo la vicenda di un uomo che fu testimone di due genocidi (leggi qui la sua storia) e che cercò di far conoscere la verità, anche se non fu ascoltato, fu censurato, e le sue pubblicazioni bruciate, novello eretico nella Germania nazista.

Mischa Wegner nasce nel 1941 a Napoli, e cresce nelle strade di Positano. Negli anni ‘60 si trasferisce a Roma al seguito dei genitori. Non conosce un padre diverso da quello che a 55 anni è già segnato dai genocidi e dall’esilio, un padre che urla nel sonno: “L’urlo era parte della sua vita e pertanto fece parte del fardello della famiglia. Non si viveva come tragedia, ma come qualcosa di naturale”. Un padre che non ama parlare di ciò che ha visto e del dolore che porta nel cuore. Un padre silenzioso e lontano nei suoi pensieri: “da questa prigione non riusciva ad uscire, e quindi non poteva comunicare”. Mischa conosce la storia di suo padre, l’impegno prima sul fronte polacco e poi su quello orientale come sanitario al seguito delle truppe tedesche, il suo impegno per la pace e i diritti umani. Conosce le sue battaglie – scritti, appelli e conferenze – per svegliare le coscienze di un occidente (Europa, Germania e Stati Uniti) che non vuole guardare, lui che “non era uno che guardava dall’altra parte”.

I mondi di Armin e Mischa sono già lontani cronologicamente e in realtà, oltre al dato biografico, Mischa non si è mai interessato più di tanto delle vicende del padre. Fino al ’95, quando Pietro Kuciukian si rivolge a lui per avere materiale fotografico per la mostra “Rifugio precario” sugli intellettuali tedeschi obbligati a lasciare la Germania perché non graditi a Hitler. “Non poteva immaginare che mi avrebbe trascinato in un volo nel profondo della mia esistenza, alla scoperta di mio padre e al contempo del mio passato” dirà anni dopo Mischa Wegner. “Noi ereditiamo molto dell’esperienza di vita dei nostri genitori. Fino al ’95, quando mi sono state chieste le foto di mio padre, non mi sono mai occupato degli armeni, mio padre non ne ha mai parlato e io non ho mai fatto domande. Appena ho cominciato a parlare a quella conferenza ho cominciato a piangere. C’era un cassetto dentro di me che non avevo mai aperto e che nascondeva cose che non sapevo”.

In quel cassetto, Mischa ha trovato le ferite di cui suo padre non lo ha mai caricato: “il tradimento verso se stesso per sopravvivere, l’ignominia della sottomissione ai guardiani della prigione (nei campi di concentramento, ndr), la sottomissione della dignità umana sotto lo stivale della rozzezza e della stupidità. Ho sentito mio padre come se mi fosse dentro e ho sofferto tremendamente la sua umiliazione come mia”. E ancora: “Mio padre è morto tante volte, nei deserti dell’Anatolia prima, nei campi di concentramento poi. È morto ogni volta che la dignità dell’uomo è stata calpestata. Avete mai pensato cosa significhi vedere l’uomo morire una, dieci, cento, mille, diecimila, centomila, un milione di volte? Di vederli con i vostri occhi, lì davanti a voi, morire con loro e non morire, non morire ma essere destinati a portare la memoria dentro di voi per il resto dei giorni”.

Sulla tomba di Armin Wegner a Positano c’è la stessa scritta che Papa Gregorio VII volle sulla sua: “Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio”. Oggi quell’esilio è finito, non è finito invece il suo compito. Armin Wegner ha scattato foto degli armeni in zone inaccessibili e in modo rocambolesco le ha portato in Germania. Scriverà in una lettera: “Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto”. Nel poema “Der alte Mann” (Il vecchio), scrive: “La mia coscienza mi chiama a essere testimone. Io sono la voce degli esiliati che grida nel deserto”. Questa coscienza lo accompagnerà tutta la vita. A Stromboli, sul soffitto della sua stanza di lavoro sono incise queste parole: “Ci è stato affidato il compito di lavorare a un’opera, ma non ci è dato di completarla”. Non è stata completata neanche dalle onorificenze: il titolo di Giusto delle Nazioni dello Yad Vashem (1967) e l’Ordine di San Gregorio degli Armeni (1968). Oggi tocca a Mischa portare avanti quel compito, lo sa bene. “Oggi grido anche io. Da muto ma grido anche io. Ormai sono un uomo ferito anche io”.

Più informazione nel libro di

Gabriele Nissim, “La lettera di Hitler”

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