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Sesso, violenza e torture: la storia di una donna yazida rapita dall’Isis

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 10/06/16

Hana, 26 anni, prima ostaggio dei jihadisti e poi venduta al mercato delle schiave, una volta fuggita ha raccontato la sua incredibile storia

Sapete cosa accade ad una donna rapita dai miliziani dall’Isis? Hana, una bella ragazza di etnia Yazida di 26 anni, originaria di una città del nord ovest dell’Iraq, lo ha vissuto sulla propria pelle. Ed ha deciso di raccontarlo in una biografia che ripercorre i giorni dell’orrore.

A trascriverla è stata Claudia Ryan, che in “Hana la Yazida” (edizioni San Paolo), ha riportato le confessioni della donna yazida allo psicologo. Perché per dimenticare un trauma così feroce, fatto di violenze sessuali, torture, immagini macabre, è necessario l’intervento di un medico. E in alcuni casi neppure uno specialista riesce a sanare una ferita che rischia di segnarti tutta la vita.

Dal 3 agosto 2014 la sua vita cambia irreparabilmente. Dal giorno in cui i combattenti dello Stato Islamico fanno irruzione nella sua città, Sinjar. Prima la sua era una esistenza normale. Faceva l’infermiera in ospedale, era una stimata lavoratrice e proclamava il suo credo religioso in maniera libera. Aveva il sogno nel cassetto di sposarsi e costruirsi una famiglia come tante ragazze della sua età.

IL GENOCIDIO

Sapeva però che se un giorno fosse arrivato lo Stato islamico a Sinjar, niente sarebbe stato più come prima. E gli odiati yazidi ne avrebbero pagato le conseguenze peggiori. «La mia gente è abituata ai genocidi… c’è un ricordo orale che si tramanda: 72 volte tentarono di sterminarci. Ma per chi lo vive sulla sua pelle è diverso, non è una consolazione sapere che è già stato fatto prima, in quel momento sei solo terrorizzato e preghi di salvarti. O di morire, dipende…».

“SABAYA”

Quel maledetto giorno afoso di agosto Sana viene rapita dai miliziani insieme ad altre donne yazide, che vengono portate in uno stabile conquistato dall’Isis. Da allora diventano ufficialmente “sabaya”, termine arabo con cui i fanatici dello Stato Islamico chiamano le donne catturate: una parola che si traduce con “schiava”.

L’aguzzino di quel gruppo di donne è un arabo. «Ci fece alzare e ci scrutò a una a una, in silenzio – ricorda Hana -. Ci guardò in faccia, ci osservò il corpo girandoci intorno. “Allah ci ha detto che Melek Taus (divinità degli Yazidi ndr) non è Dio. Ci ha detto che è il diavolo e, poiché voi lo adorate, non avete alcun diritto e ci appartenete. Possiamo vendervi o usarvi come più crediamo. Dovete annullarvi alla nostra volontà”».

STUPRATA SOTTO TRANQUILLANTI

Hana viene scelta da quell’uomo e portata in una stanza isolata. Le dice di mangiare e lei accetta ma nel cibo sono dissolti tranquillanti e sonniferi: in stato di semicoscienza la violenta e così perde la verginità.


«Entrò con forza dentro di me e io sentii male. Spinse con violenza e io ricordo l’odore del suo sudore. Poi mi spostò di lato e si mise a dormire. Dormii anch’io, in un oblio profondo da cui non avrei voluto emergere».

Abu Kacher, questo il nome dell’aguzzino, la tiene con sé per diversi giorni conditi sempre dallo stesso copione. Hana non può uscire ed è sottomessa ai suoi ordini. Quando lui ne ha voglia la violenta e lei incassa. Un giorno, però, le dice che deve andare via e insieme ad altri miliziani la conduce in un altro villaggio, e la rinchiude in un edificio insieme ad altre ragazze.

LE CONSEGUENZE DELLE TORTURE

Una di loro aveva un labbro spaccato e una grossa tumefazione al livello della guancia e dello zigomo, con anche una lacerazione della pelle. «Mi tolsi di dosso l’abito nero e mi sedetti accanto a lei su un materassino – racconta Hana – “Chawani, mi chiamo Hana, e tu?”. Lei mi guardò con gli occhi gonfi di lacrime. Avrà avuto 18 o 19 anni. “Mi chiamo Hweida” mi rispose con un filo di voce. “Perché ti hanno picchiata in quel modo?” “Volevano che mi convertissi all’islam, ma io non ho accettato. Poi mi hanno stuprata…” e incominciò a piangere».

Ma Hana non ha neppure il tempo di demoralizzarsi perchè, sapendo che è una infermiera, Abu Kacher chiede di aiutare un medico che stava curando le ferite di miliziani dell’Isis feriti. Hana si mette in mostra con le sue doti di infermiera. «Erano tutte ferite da arma da fuoco, alcune piuttosto gravi. Feci il mio lavoro in modo scrupoloso, ma non cercai di essere delicata in nessun modo. I pazienti si lamentavano dal dolore e uno mi disse: “Stai attenta, cagna yazida”. Io schiacciai la ferita, lui si mise a urlare, e gli sussurrai: “Se mi chiami ancora così ti faccio soffrire le pene dell’inferno…”».

VENDUTA PER 80 DOLLARI

Il giorno dopo la ragazza viene trasferita a Mosul, principale città irachena nelle mani dell’Isis. E’ trasferita al “Sabaya Market”, il mercato delle schiave. «Fui venduta per 80 dollari. La contrattazione fu animata. Questa mia esistenza, fatta di carne e ossa, occhi grigi e lunghi capelli neri, ma fatta anche di conoscenza, studi, pensieri, sogni, sentimenti, fu valutata 80 dollari (…) Mi comprò Abu Mosa, un iracheno che viveva alla periferia di Mosul, lavorava per l’Hisbah, la dottrina islamica, e la faceva rispettare».

Abu Mosa riprende il copione del precedente rapimento. Hana non esce di casa, è violentata in continuazione, soffre in silenzio. Alla fine di ottobre del 2014 le chiede per la prima volta di convertirsi all’Islam e di fronte al diniego la picchia con forza. Ma Hana non cede e decide di desistere. Qualche giorno più tardi accade un fatto che sarà l’inizio della svolta.

IL PIANO PER LA FUGA

A casa di Abu Mosa arrivano due miliziani ferite e Hana è costretta a curarli. Architetta così il piano per la fuga perché tra i medicinali necessari per salvare quegli uomini, sono necessari anche dei tranquillanti. Abu le acquista tutto il necessario e lei abilmente mette da parte alcune gocce in un barattolo. Dopo qualche giorno gli uomini lasciano la casa del suo “padrone” e a quel punto la ragazza decide, una sera, di mescolare nel cibo una dose massiccia di farmaci.

Abu Mosa cade in un lungo sonno, mentre Hana taglia i capelli, si traveste da miliziano dell’Isis ed esce di casa con una scorta di cibo, impugnando il kalashnikov. Non prende l’auto ma corre a piedi nei campi. Si dirige verso nord, sul versante di una vallata che sporge in direzione del Kurdistan nella speranza di essere aiutata dai peshmerga.

SALVATAGGIO SUNNITA

La sua fuga è drammatica, ad un tratto senza più punti di riferimento, fino a quando sviene per la mancanza di energie e si sveglia in un letto circondata da un uomo e alcune donne. Ibrahim insieme alla sua famiglia la tranquillizza: «“Non preoccuparti, non chiameremo quelli dell’Isis. Qui sei al riparo. Mia figlia e mia moglie si prenderanno cura di te e poi ti aiuteremo ad arrivare in un posto sicuro”. Quelle persone erano musulmane, sunnite, ma il loro Allah era diverso da quello di Abu Kacher o Abu Mosa. Per loro la vita umana e la dignità avevano un valore, non importava di che religione fossi. Loro mi salvarono, a loro devo la mia vita».

E’ l’ultimo passo di una incredibile storia. Trascorrono quattro mesi a casa di quella famiglia musulmana prima di essere portata in salvo dai peshmerga. Ora violenze e torture sono alle spalle. Ma nella mente di Hana aleggiano ancora tanti fantasmi che dovrà riuscire ad allontanare.

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