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La Bibbia come educazione al mangiare

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padre Gaetano Piccolo - Rigantur Mentes - pubblicato il 02/06/16

Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste. (Lc 9,11-17)


La Bibbia potrebbe essere riletta come un’educazione al mangiare
. All’inizio c’è una dieta varia, ma con indispensabili limitazioni: di tutti gli alberi potrai mangiare tranne…Ma i limiti e le proibizioni scatenano la fantasia e l’audacia. E spesso si diventa vittime di venditori astuti che presentano i loro prodotti con proposte accattivanti e irresistibili.

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La fame è un’immagine di ciò che siamo: siamo mancanti. Ospitiamo sempre un vuoto da riempire. Un vuoto che non si riempie mai una volta per sempre. Non siamo mai autosufficienti, mai definitivamente soddisfatti, ma sempre in cerca di qualcosa che possa colmare il languore che sentiamo.

Quando abbiamo fame, sentiamo una spinta a cercare: cerchiamo perché abbiamo paura di morire. È vero, quando non abbiamo più voglia di vivere, smettiamo di cercare, ma è anche vero che più è forte la paura di morire più ci accontentiamo di mangiare la prima cosa che troviamo, anche se ci fa male, anche se sappiamo che ci farà male.

Non sempre riusciamo a gestire questa paura di morire di fame. Ma è proprio davanti a questa paura che Gesù dice, alla fine del Vangelo, prendete, senza restrizioni, mangiate, non hai più bisogno di andare a caccia, non hai più bisogno di cercare surrogati, non hai più bisogno di mangiare di nascosto, questo è il mio corpo, questa è la vita che cerchi, il cibo che colma la tua fame.

Il testo di Luca è una tappa di questo cammino: come i Dodici, anche noi forse abbiamo sempre pensato che il cibo si compra e si vende, siamo convinti che l’affetto si conquista e si ricambia, siamo persuasi che nella vita ci si afferma o si perde. I Dodici suggeriscono a Gesù di lasciare che la gente vada a comprarsi il pane. Gesù cambia il verbo: non più comprare ma date/donate da mangiare. La vita si dona e si riceve non si compra o si vende.

Cambiare questo verbo vuol dire cambiare la dinamica della storia: Giacobbe aveva mandato i suoi figli in Egitto a comprare il grano, perché nel paese c’era una grande carestia. Ma i figli di Giacobbe, mentre pensano di andare a comprare il pane, stanno andando invece a incontrare il fratello, quel Giuseppe che hannovenduto. La riconciliazione ci può essere solo uscendo dalle logiche di mercato.

Facciamo fatica a cambiare verbo perché siamo preoccupati della nostra fame: intanto mangio io…; ce ne sarà per me?

I Dodici non hanno il coraggio di confessare che avevano pensato a loro stessi: cinque più due è il sette che sazia, la pienezza che mi rassicura. E non vedo l’ora di rimanere solo per mangiare. In fondo è un mio diritto. Del resto cosa potrei fare?

Quando sei in mezzo al deserto ed è ormai sera, torna la paura di morire. Il primo pensiero è come sopravvivere. Sono i tempi della vita in cui ti senti smarrito e vorresti essere rassicurato. Quando le cose funzionano, ci dimentichiamo della nostra fame, ma prima o poi arriva il momento in cui il languore diventa voragine e non è più sopportabile.

Se la fame è un’immagine della nostra mancanza, il modo in cui la riempiamo è un’immagine della nostra relazione con il mondo: c’è chi pensa solo alla propria fame, c’è chi divora gli altri/cibo, c’è chi guarda sempre nel piatto degli altri, c’è chi si rifiuta di mangiare.

Anche in questo senso, il testo di Luca è una tappa di questa educazione al mangiare: innanzitutto ci si mette sdraiati, non si mangia più in fretta come la notte di Pasqua in Egitto, perché non siamo più schiavi della paura di morire, non abbiamo più bisogno di scappare o di andare a caccia di cibo. Possiamo metterci tranquilli perché il cibo che ci sfama è con noi.

La gente non sa da dove venga quel cibo, lo sanno solo i Dodici. La vita c’è, gratuitamente, immeritatamente, la ricevi e basta. E Luca, senza troppa enfasi, opera un piccolo scivolamento dei termini: non sono più i Dodici a distribuire il pane e i pesci, ma i discepoli, cioè tutti noi, da quel momento i poi. Siamo noi che lasciamo che la vita passi. E a differenza dei verbi che descrivono la preghiera di Gesù, che sono a un tempo verbale che indica un’azione avvenuta una volta per sempre (aoristo), il verbo dare è all’imperfetto: dice che da quel momento in poi i discepoli hanno continuato a distribuire il pane e i pesci.

Eppure, la vera domanda è un’altra: questo testo di Luca, in cui Gesù divide il pane e i pesci, è racchiuso tra due domande diverse che riguardano Gesù stesso. Prima c’è la curiosità terrorizzata di Erode: chi è costui che fa tali cose? Mentre dopo la distribuzione del pane e dei pesci c’è la domanda che Gesù fa a Pietro e ai suoi compagni:ma voi chi dite che io sia?

Trovare la risposta alla propria fame più profonda non è altro che scoprire la risposta a questa domanda.

Leggersi dentro

–          Di cosa hai fame in questo tempo della tua vita?

–          Come cerchi le risposte alla tua fame?

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