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6 ragioni per cui le testimonianze sulla risurrezione sono storicamente attendibili

“Incredulità di San Tommaso”, Michelangelo Merisi da Caravaggio (Bildergalerie, Potsdam).

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Mirko Testa - Aleteia - pubblicato il 27/03/16

Quali ragioni ci inducono a credere alla risurrezione di Cristo narrata dai primi apostoli come a un fatto storico concreto?

La scoperta della tomba vuota e le apparizioni di Gesù vennero annunciate in pubblico a meno di due mesi dalla sua morte, quando molti a Gerusalemme avrebbero sicuramente potuto smentire tutti i fatti. Come primi testimoni vennero indicate proprio delle donne, che per il diritto ebraico di allora non erano attendibili. E infine, solo un evento storico sconvolgente può motivare il “Big Bang” che spinse gli apostoli, dubbiosi, a volte increduli, ma comunque smarriti per la morte ignobile del loro maestro, a rischiare la vita pur di annunciarlo.

1) A giocare a favore dell’attendibilità storica dei racconti del sepolcro vuoto è sicuramente il ruolo centrale delle donne – in particolare di Maria Maddalena –, che per il diritto ebraico dell’epoca non avevano alcun valore come testimoni.

Il giudaismo dell’epoca di Gesù era imbevuto di “maschilismo”. E, infatti, il ritratto della donna che emerge dalla Bibbia non è molto confortante. Nel libro dei Proverbi, ad esempio, viene messa in risalto la sua natura folle, rissosa, lunatica e malinconica. Ma soprattutto, nelle Antichità giudaiche lo storico ebreo del I sec., Giuseppe Flavio, scrive che “le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso”. Quindi, non è storicamente plausibile che gli evangelisti, nel tentativo di inventare di sana pianta una leggenda, abbiano indicato proprio le donne come testimoni privilegiate del sepolcro vuoto di Gesù e delle sue prime apparizioni quando, nella società ebraica del primo secolo, non potevano testimoniare. E’ vero che nell’elenco dei testimoni della risurrezione riportata nella prima lettera di Paolo ai Corinzi, si pone al primo posto l’apparizione di Cristo a Pietro: “Apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15,5). Questa priorità è confermata da Luca anche se in una diversa formulazione: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34). Eppure, nel racconto più dettagliato che abbiamo sul rinvenimento della tomba vuota che si trova in Giovanni – il cui Vangelo è stato redatto posteriormente (verso la fine del primo secolo d.C.), pur presentando nei suoi strati profondi dei ricordi più arcaici di quelli stessi dei Vangeli sinottici – si legge che Maria Maddalena è stata la prima a cui è apparso il Signore risorto. Lei, che Gesù aveva liberato da sette demòni e che era divenuta sua discepola, seguendolo fino al monte Calvario, è la prima testimone nell’alba primaverile di quella Pasqua d’aprile dei primi anni 30. Secondo un altro Vangelo, quello di Matteo, Maria Maddalena e l’“altra Maria” incontrarono Gesù mentre tornavano dall’aver scoperto il sepolcro vuoto (Mt 28,9-10). In questi due Vangeli lo stesso Signore risorto (Gv 20,17; Mt 28,10) e un angelo (Mt 28,7) dissero alle due donne (Matteo) o soltanto a Maria Maddalena (Giovanni) di portare la notizia della risurrezione ai discepoli.

2) Gli apostoli annunciarono pubblicamente la scoperta della tomba vuota e gli incontri con il Risorto a poca distanza dalla morte di Gesù, quando i testimoni ancora in vita a Gerusalemme avrebbero potuto smentirli.

Una ulteriore riprova della attendibilità delle fonti scritte a noi pervenute è che nessun evangelista, né altra tradizione neotestamentaria, racconta il modo in cui avvenne la risurrezione. A farlo è solo il Vangelo di Pietro, lo scritto apocrifo – quindi non inserito dalla Chiesa tra i suoi testi ufficiali – nel quale si trova il racconto più antico, a noi noto, su questo argomento che fu redatto presumibilmente in Siria, verso la metà del II sec. I primi seguaci di Gesù erano per lo più pescatori, incarnavano bene la mentalità semitica di allora, non erano visionari, avevano bisogno di prove tangibili non di vane e fumose promesse. E le manifestazioni di Gesù risorto ricalcano il carattere di esperienze concrete, di incontri reali. Due sono i verbi greci usati dal Nuovo Testamento per definire l’evento pasquale: il primo è eghéirein, letteralmente “risvegliare” dal sonno della morte a opera di Dio Padre; mentre l’altro verbo è anìstemi che indica il “levarsi in piedi”, quasi un innalzarsi dal sepolcro e dalla terra verso il cielo. In questi due verbi vi è una duplice descrizione della Pasqua che non è meramente riducibile alla rianimazione di un cadavere, come quello di Lazzaro o del figlio della vedova di Nain o della figlia del capo della sinagoga di Cafarnao, destinati tutti a morire di nuovo. Con la risurrezione si vuole sottolineare che Cristo sfugge al regno della morte e torna alla vita: non per nulla nelle apparizioni si insiste sulla verificabilità della realtà personale del Risorto che si fa toccare, parla, incontra i discepoli e mangia.

3) Stando alla testimonianza degli Atti degli Apostoli, confermata dalle lettere di san Paolo ai Romani, Corinzi e Galati, la Chiesa primitiva ha inoltre predicato la risurrezione di Gesù sin dai suoi primordi, già in occasione della prima Pentecoste, quindi non più di due mesi dopo la morte di Gesù (Atti 2,24-36) Questo prova, data l’esiguità di tempo a disposizione, il fatto che le apparizioni di Gesù non potevano essere elaborazioni leggendarie del messaggio della risurrezione frutto della fede. D’altronde, in che modo gli apostoli potevano predicare la risurrezione di Gesù dai morti se gli abitanti di Gerusalemme potevano in qualsiasi momento mostrare la presenza del cadavere del loro maestro?

Il più antico documento sul Gesù risorto si trova nel capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, scritta da san Paolo a metà degli anni 50 d.C., quindi a meno di 20 anni dalla morte di Gesù. “Pietro” viene riportato con il suo nome aramaico “Kefa” che ha il significato di “Pietro” ma anche di “pietra”, segno tipico nell’Antico Testamento per indicare la stabilità, dono divino. Il biblista e teologo don Rinaldo Fabris ha spiegato ad Aleteia che “questo sta a indicare che Paolo si rifaceva a una tradizione antica proveniente da Antiochia”. Secondo la tradizione a vedere Gesù risorto furono Simon Pietro (1 Cor 15,5; Lc 24,34), Giacomo, il “fratello del Signore” (1 Cor 15,7) e Maria di Maddalena (Mt 28,9-10; Gv 20,14-18); due discepoli mentre si dirigevano verso Emmaus (Lc 24,15-31), gli undici apostoli (1 Cor 15,5; Mt 28,16-20; Lc 24,36-51; Gv 20,19-29; 21,1-23; Atti 1,3-11); un numero considerevole di apostoli (1 Cor 15,7) e in una occasione più di cinquecento discepoli “la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti”. Un dettaglio quest’ultimo importante, perché san Paolo sembra chiamare in causa quei testimoni delle apparizioni allora viventi che avrebbero potuto facilmente confermare o smentire le sue parole.

Gesù risorto non fece apparizioni al grande pubblico in generale, a Ponzio Pilato a Caifa o alla folla che aveva invocato la sua esecuzione. Come Luca e Pietro ammettono apertamente, Gesù è apparso “non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi” (At 10,39-40). Quindi le testimonianze in favore della risurrezione di Gesù nel Nuovo Testamento provengono tutte da membri del movimento cristiano, non da osservatori neutrali o avversari. Un fragile appiglio per i critici dell’autenticità delle apparizioni, visto che anche alcuni non credenti come Giacomo, parente di Gesù, Tommaso o Paolo hanno incontrato Gesù risorto.

Le apparizioni accadono in circostanze normali, non in momento di estasi, né in sogno, e senza quelle caratteristiche di gloria apocalittica che troviamo altrove (Mc 9,2-8; Mt 28,3). Per don Fabris: “Le apparizioni non sono attese, non sono cercate. Non sono frutto dell’elaborazione di un lutto, o una visione, ma un intervento dall’esterno. Inoltre, si differenziano dalle apparizioni di Dio nell’Antico Testamento; dal Dio ineffabile, indicibile, invisibile di Abramo, Isaia o Geremia”. E non potevano neanche essere delle allucinazioni collettive, perché altrimenti sarebbe impossibile spiegare quanto accaduto a Paolo sulla via di Damasco, alcuni anni dopo l’apparizione a Pietro, che molto probabilmente avvenne in Galilea.

4) Nonostante diverse discordanze sui racconti pasquali, i quattro Vangeli dimostrano di concordare sugli elementi essenziali, presentando un quadro storico molto coerente dell’epoca.

Allo stesso modo, la notizia secondo cui Pilato aveva risposto ai sommi sacerdoti e farisei di affidare alle guardie del tempio la sicurezza del sepolcro di Gesù, non sarebbe un racconto con intento apologetico per rovesciare la voce secondo cui la risurrezione era stata frutto del furto del cadavere di Gesù da parte dei suoi discepoli. Matteo riferisce, infatti, che le autorità giudaiche diffusero la “diceria” che la tomba era vuota perché i discepoli ne avevano sottratto il corpo (Mt 28,11-15) per proclamare la risurrezione, una contro-informazione ripetuta nel II sec., alla quale si oppone Giustino nel suo Dialogo con Trifone e ripresa nel XVIII sec. da Reimarus. Nella sua opera Dicono che è risorto, Vittorio Messori afferma: “E’ tutto molto logico, tutto molto coerente, compreso il fatto che il Crocifisso sia definito da sinedriti come plános, impostore, e quella sua e dei suoi discepoli plàne, impostura. Sono sostantivi che, nei Vangeli, sono usati solo qui e solo da Matteo; il verbo da cui derivano appare due volte in Giovanni (7,12 e 7,47). E basta. Ma anche nel quarto Vangelo, come qui, nel primo, questo termine ingiurioso (planáo significa ‘fuorviante’, ‘commettere impostura’) è messo in bocca alle autorità ebraiche e ai farisei per infangare Gesù. L’uso ritorna anche in Paolo, il quale le tre volte in cui usa planáo e i suoi derivati, lo fa sempre per ritorcere un’accusa proveniente ai cristiani dal giudaismo, come in 2 Cor 6,8: ‘Siamo ritenuti impostori (plánoi) eppure siamo veritieri’. Ed è singolare notare che nei secoli, sin quasi ai giorni nostri, la polemica ebraica contro i ‘galilei’ cristiani, si servì soprattutto dell’accusa di impostura e accusò il rabbi Gesù di essere un impostore. Dunque, sembra proprio anche qui, nelle parole che Matteo attribuisce ai ‘sommi sacerdoti e farisei’ stia nascosto un preciso segnale di credibilità: sono ebrei che parlano di quel presunto Cristo proprio come i gerarchi giudei dovevano parlare di lui e come di lui avrebbero sempre parlato”.

La menzione dei farisei accanto ai sommi sacerdoti è allo stesso modo un richiamo importante. Come ribadito anche negli Atti degli Apostoli (23,6-8): i sadducei – il gruppo che controllava il Sinedrio a cui apparteneva sia Caifa che suo suocero Anna – non credevano nella resurrezione dei morti mentre i farisei sì, quindi la presenza di questi ultimi nella delegazione che andò da Pilato è credibile. L’intento del racconto di Matteo non è quello di aggiustare la vicenda, tanto che colloca l’intervento delle autorità ebraiche con un giorno di distanza lasciando per un giorno la tomba incustodita. E’ quindi un episodio che non serve a cancellare del tutto il dubbio sul trafugamento del corpo proprio a causa di quella prima notte in cui la tomba rimane incustodita. Don Fabris ha spiegato ad Aleteia che “la tradizione cristiana della tomba vuota non è mai stata smentita nel mondo ebraico. Ne viene data semplicemente una diversa spiegazione. E questa diceria che serpeggiava in ambiente ebraico è testimoniata molto tardivamente, nel V sec.”.

5) Solo la personale esperienza di un Gesù vivente può motivare il radicale e improvviso cambiamento avvenuto nei discepoli che da smarriti, sconfitti, umiliati divennero instancabili annunciatori della sua risurrezione.

La paura delle donne alla scoperta della tomba vuota, il primo dubbio di Maria di Magdala che pensa che il cadavere sia stato trafugato – “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto” (Gv 20,2) -, l’episodio della visita di Pietro al sepolcro che tornò a casa “pieno di stupore” ma senza ancora credere nella risurrezione, l’incredulità di Tommaso soddisfatta dallo stesso Gesù. Queste incertezze, che i Vangeli non tacciono, confermano che quello dei primi testimoni non è stata l’elaborazione di una credenza religiosa, ma un arrendersi alla realtà. Solo un evento imprevisto e imprevedibile dopo il fallimento del Calvario, poteva vincere le obiezioni di quel gruppetto sparuto di ebrei prima umiliati, impauriti e sconfitti e farne gli instancabili testimoni di un annuncio inaudito. L’esecuzione capitale di Gesù agli occhi di tutti doveva significare la fine di ogni attesa e speranza nella venuta di un Salvatore. Essere crocifissi non significava soltanto soffrire la più crudele e umiliante forma di pena capitale, ma anche morire sotto il peso di una maledizione religiosa (Gal 3,13). La crocifissione era vista come l’esecuzione di un criminale che muore lontano dalla misericordia di Dio. La nozione di Messia sconfitto, sofferente, morto e risorto dalla tomba era estranea al giudaismo pre-cristiano e molti movimenti messianici o sedicenti messianici nel secolo precedente e in quello successivo alla nascita di Gesù generalmente finirono con la morte violenta del fondatore.

Allo stesso modo le narrazioni del Nuovo Testamento mostrano che i discepoli fuggirono (Mc 14,50) e ritennero perduta la causa di Gesù (Lc 24,19-21). La vergogna della crocifissione di Gesù era uno shock così forte da richiedere molto più di una ordinaria riflessione spirituale volta a superare lo scandalo della croce e a portare i discepoli a scoprire il significato di ciò che era accaduto. Quando Gesù appare, essi in un primo momento dubitano ed esitano ad accettarne la verità (Mt 28,17; Lc 24,36-43; Gv 20,24-29). Eppure Saulo, il persecutore dei cristiani a Gerusalemme, dopo l’esperienza di rivelazione sulla via per Damasco cambia radicalmente la sua prospettiva religiosa e proclama il Vangelo ai non ebrei; Pietro, colui che aveva rinnegato Gesù, diventa il testimone ufficiale della risurrezione spingendo alla fede pasquale “gli Undici” e “gli altri che erano con loro” (Lc 24,33). Ecco quindi che solo la saldezza e verità inoppugnabile di un fatto poteva motivare un ritorno accettato sulla scena di colui che, al cospetto di tutti, era stato sconfitto, umiliato, annientato fino alla morte sulla croce. Solo l’esperienza reale di incontro con Gesù risorto, non un fantasma o il prodotto della fantasia di una comunità di visionari, potevano far superare il trauma di quel cadavere dilaniato.

6) L’idea di un Messia risorto dai morti era una idea scandalosa e inconcepibile nel contesto giudaico da cui provenivano i discepoli di Gesù e non poteva derivare dai miti di morte e rinascita di dèi ed eroi propri della cultura greco-romana.

L’idea di un Gesù risuscitato dai morti non ha alcuna continuità con ciò che il popolo ebreo conosceva già di Dio. Era uno scandalo. Una speranza di risurrezione corporea alla fine dei tempi emerge in due testi apocalittici che vengono generalmente datati al II sec. a. C. (Is 26,19; Dan 12,2-3). Un libro deuterocanonico – libro dell’Antico Testamento scritto in greco accolto dalla Chiesa cattolica tra i libri sa
cri ma non dalla religione ebraica – registra un’attesa simile verso una nuova vita attraverso la risurrezione (2 Macc 7,9-14; 12,44). Anche molte opere apocrife attestano questa speranza nella risurrezione (Enoch etiopico, Testamento dei Dodici Patriarchi). Gli ebrei credevano per lo più nella risurrezione dei morti come destino di tutto il popolo di Dio, forse di tutti gli uomini, ma non nella risurrezione attuale di una persona. Gli stessi apostoli, in quanto ebrei devoti, ritenevano che la risurrezione sarebbe avvenuta per tutti alla fine dei tempi. E soprattutto, nessun ebreo aveva prospettato la risurrezione di un Messia crocifisso. Paolo perseguitava i cristiani proprio perché questi ebrei avevano compromesso il monoteismo ebraico adorando Gesù come il Signore.

Il biblista don Bruno Maggioni ha spiegato ad Aleteia “che l’intento non apologetico degli evangelisti si manifesta chiaramente in questa idea del tutto rivoluzionaria di Dio che si rivela in Gesù Cristo, completamente diversa da come gli uomini lo immaginavano fino ad allora: non un imperatore in trono, non onnipotente, non trionfatore”. Per don Rinaldo Fabris: “Tra la fine del I sec. e l’inizio del II sec., troviamo un movimento che si distingue nettamente e si stacca da giudaismo fondandosi su un pensiero inconcepibile, e che non si spiega senza una esperienza reale diretta e che il Gesù non solo era un profeta, un martire, un Messia di carattere politico, un riformatore. Una esperienza totalizzante che subentra a scardinare la mentalità dominante”.

Nel cercare motivazioni a questa netta cesura creata dalla comunità cristiana c’è chi ha tentato di leggere il Nuovo Testamento alla luce delle religioni greco-romane e orientali, giungendo alla formulare la teoria, secondo cui Paolo e gli autori dei Vangeli avrebbero elaborato la concezione di Gesù inteso come figura di culto analoga a quella delle religioni misteriche ellenistiche. A Gesù sarebbe stato applicato il mito di un eroe – come aveva già fatto il filosofo pagano del II sec. Celso nell’opera La vera dottrina – o di un dio morto e risuscitato, come accadde per Iside e Osiride in Egitto, Adone e Astarte e poi Attis e Cibele in Asia Minore. La fede nella risurrezione, tuttavia, è sorta a Gerusalemme, nel cuore dell’ebraismo che rigetta i miti idolatrici. La fede in Gesù risorto esiste già subito dopo la sua morte, cosicché si esclude ogni possibilità di influsso di tali miti. E’, inoltre, difficile che i cristiani del primo secolo che aderivano profondamente alla nuova fede ed avevano un retroterra culturale giudaico, abbiano potuto attingere a uno schema mitologico di stampo greco-romano.

CONCLUSIONE: La risurrezione di Gesù non è tuttavia un dato “scientifico” incontrovertibile: credere in essa è sempre, in ultima analisi, un atto di fede.

La questione della fede nella risurrezione di Gesù non può essere risolta dalla sola prova storica. Accettare la verità della risurrezione e credere in Gesù Cristo risorto è molto più che un semplice ragionamento fondato su annunci e fatti chiusi nel passato cui aderire intellettualmente. Dio entra nel mondo in modo inaspettato, scioccante e paradossale. Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi nella introduzione a Inchiesta sulla resurrezione di Andrea Tornielli, indagando nei Vangeli sulla risurrezione di Cristo, “si procede quasi come su un crinale tagliente lungo il quale si devono muovere i piedi con molta circospezione, col rischio costante di scivolare lungo il versante in penombra della storia, ove conta solo ciò che è validamente attestato e sperimentalmente documentato, oppure di avviarsi lungo il versante abbagliante della luce pasquale, della gloria e dell’esperienza di fede”. Il rischio, per dirla con Pascal, è quello di cadere in “due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Don Giuseppe Ghiberti, teologo e biblista che da anni si occupa della Sindone di Torino, ha commentato ad Aleteia: “Della risurrezione non c’è stata esperienza esterna diretta. Tutto fa pensare che quella esperienza non fosse possibile; comunque i primi testimoni sono giunti a fatto avvenuto. Le conseguenze invece sono storicamente qualificabili: colui che era morto, e che era nella impossibilità di qualsiasi rapporto interpersonale con la mediazione del corpo, dopo un tempo ben determinato rientra in rapporto umano, a dimensione corporea, con più interlocutori, in più circostanze. L’interpretazione di questo dato fattuale è offerta dalla fede”.

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