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I rimorsi di una maniaca del controllo

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Ollyy/Shutterstock

Elizabeth Dye - pubblicato il 17/03/16

Tutto il mio “aiuto” non ha mai fatto una differenza positiva. Quel che è peggio è che probabilmente è stato anche di intralcio

Salve. Mi chiamo Elizabeth, e sono una maniaca del controllo.

A un certo punto ho deciso che era giusto, perfino nobile, aiutare a tutti i costi le persone che sembravano incapaci di fare buone scelte da sé.

Il micromanagement per il bene maggiore è la chiamata più nobile, no? Da buona cristiana, mi sentivo in dovere di aiutare chi non riusciva ad aiutare se stesso, anche se voleva dire annullare la sua iniziativa.

Consigli non richiesti? Pronti! Hai bisogno di un volontario? Sono la persona che fa per te. Qualcuno si deve assicurare che le cose vengano fatte per bene!

Tutto questo un giorno è crollato – il giorno in cui sono entrata nella stanza d’ospedale di una persona a cui volevo bene. Una persona nella cui vita mi ero intromessa, intervenendo e manipolandola – il tutto per il suo bene.

Ero nella sua stanza cercando di capire in quale altro modo potessi intervenire ma mi sentivo del tutto sconfitta. Tutto era inutile di fronte alla volontà e alla scelta umana. E allora mi sono arresa.

Con la grazia per pregare finalmente perché si facesse la volontà di Dio, ho capito che amavo la donna in quella stanza e che amarla era tutto quello che avevo mai desiderato. L’unico rimorso che potrei mai avere è quello di non aver amato. Ho provato rimorso per tutte le volte in cui non ho amato, non come sentimento, non come emozione, ma come verbo. Volevo solo amarla. Volevo amare di più.

Mentre pregavo per trovare un modo per amare che lei avrebbe riconosciuto nella sua condizione di debolezza, ho visto una donna privata di tutti i simboli esteriori della dignità, tutti tranne la sua pelle umana. Nella disperazione e nell’esasperazione ho detto con ira a Dio: “Come posso amare questo?!”, e Lui ha risposto: “Dalle la dignità che le appartiene”.

Quale dignità? La dignità del libero arbitrio. La dignità del diritto di fare le proprie scelte, anche quelle negative, anche quelle che ci fanno male. Era l’ultima cosa che volevo offrirle.

Per un istante ho immaginato Dio e la sua sofferenza ogni volta che usiamo il dono supremo del libero arbitrio per allontanarci da lui. Ho visto quanto sia straordinario il libero arbitrio e… mi sono vergognata. Vergognata per tutti i modi, piccoli e grandi, in cui avevo violato quel dono nella vita degli altri. Vergognata per le volte in cui avevo privato le persone dell’orgoglio di prendere buone decisioni per se stesse, per le volte in cui le avevo private del beneficio di imparare dai propri errori. Era questo che avevo fatto con il mio libero arbitrio: cercare di sottrarlo alle persone che amavo.

Cos’altro ho imparato? Che quello che definivo “aiutare gli altri” riguardava sempre me – non le scelte degli altri, ma le mie. Il mio livello di comfort, il mio orgoglio nel pensare di sapere cosa sia giusto per gli altri, o anche per me stessa. Volevo giocare ad essere Dio, non solo per amore, ma per evitare il disagio di guardare gli altri soffrire per le loro scelte sbagliate, e lo facevo camuffando la cosa da capacità di aiutare e competenza. Tutto il mio “aiuto” non ha mai fatto una differenza positiva. Quel che è peggio è che probabilmente è stato anche di intralcio.

È stata una pillola amara, umiliante e penitenziale da buttar giù, ma me l’ero guadagnata.

In questi giorni lavoro sodo per usare il mio dono supremo del libero arbitrio per permettere agli altri di avere la propria dignità. Penso di aver finalmente capito che amare non significa mai minare questo dono, non importa quanto sia grande o piccola la situazione, o quanto sia nobile l’intenzione. Non è facile, soprattutto quando sembra essere abusato e rendere la loro vita peggiore; dopo tutto, la caduta è iniziata con una cattiva scelta presa liberamente, e la salvezza del mondo è iniziata con un “Sì” pronunciato in libertà.

Mi chiamo Elizabeth, e sono una maniaca del controllo che sta cercando di guarire.

Elizabeth Dye è moglie, mamma che si dedica all’home-schooling, figlia, sorella e zia. In passato ha lavorato nel settore farmaceutico e in quello del Case Management.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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