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Quando la Chiesa “rientrò” nella storia

Young Catholic indigenous pilgrims attending World Youth Day (WYD) – AFP

© YASUYOSHI CHIBA / AFP PHOTO

Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 26/11/15

Cinquant'anni fa al Concilio promulgata la “Gaudium et spes”

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Sembrano scritte per il nostro tempo, queste parole così profetiche, così sentite. Sembrano parole della Chiesa di Francesco, parole di amore, di solidarietà, di misericordia, parole per ridare speranza a uomini e donne del XXI secolo, segnato da una barbarie omicida, da nuovi immani conflitti, da una povertà che assale ormai l’intero pianeta.

Invece, sono parole di cinquant’anni fa. Sono l’inizio della costituzione pastoraleGaudium et spes, approvata al Concilio Vaticano II il 7 dicembre del 1965, alla vigilia della solenne chiusura. E, in quell’esordio,c’era un po’ tutto il cammino del Concilio, la sua evoluzione, il significato complessivo del vasto rinnovamento che aveva promosso. E c’era, nello stesso tempo, l’immagine di una “nuova” Chiesa, che, dopo secoli di contrasti, si dichiarava pronta a riannodare i fili del dialogo con il mondo contemporaneo. Pronta, anzi, ad essere presente nel mondo, fra gli uomini, fra tutti gli uomini.

Non era mai accaduto prima che un Concilio ecumenico affrontasse così apertamente i problemi temporali dell’umanità, e si dichiarasse “realmente e intimamente solidale” con il genere umano e la sua storia. Al punto che, per cogliere a fondo la condizione concreta dell’uomo, per rispondere ai suoi perenni interrogativi, rilesse questa storia alla luce del Vangelo, naturalmente, ma anche dell’esperienza umana. Dunque, l’uomo segnato dal peccato, ambiguo, contraddittorio; ma, in quanto creato a immagine di Dio, con una propria dignità inviolabile, incancellabile, e perciò la sua attività ha un posto preciso nel piano provvidenziale.

E, dopo l’uomo, il mondo. La Chiesa aveva guardato con ammirazione le sue conquiste, i suoi progressi. Riconoscendo il valore delle realtà terrestri, la loro legittima autonomia. E, con chiaro riferimento al caso Galilei, deplorando le antiche contrapposizioni tra scienza e fede. Ovviamente, in quanto depositaria di un messaggio di redenzione per l’uomo e per il mondo,la Chiesa non avrebbe mai rinunciato a “predicare con vera libertà la fede”, e a “dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardavano l’ordine politico”. Comunque, si diceva disposta a rinunciare “all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potrebbe far dubitare della sincerità della sua testimonianza”.

Bellissimo, nel suo lirismo,il discorso di Paolo VI al momento della promulgazione. “Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso.” Non era ingenuo ottimismo, come dissero alcuni critici, quello della Gaudium et spes. Era invece realismo evangelico. Era un sentimento di profonda compassione e, insieme, di solidarietà verso il mondo, per riportarne alla superficie la dimensione spirituale, e rilanciarne i valori autentici, e sostenerne la speranza in un destino più alto.

E, questo stesso atteggiamento, attraversava anche tutta la seconda parte del documento. Più pastorale, più pratica, più legata alle circostanze storiche, rispetto alla prima parte, e che perciò conteneva anche elementi “contingenti”, passibili di sviluppi. Dunque, non dei punti di arrivo, bensì di partenza verso obiettivi sempre più avanzati. E infatti – trattandosi ditemi che toccavano i vari ambiti dell’esistenza personale e della convivenza sociale – sarebbero poi affiorati in modo sempre più evidente nella coscienza dell’umanità. E, di conseguenza, sarebbero “entrati” sempre più frequentemente nell’insegnamento pontificio.

Così è stato per l’opera di promozione della dignità e della santità del matrimonio e della famiglia, intuendo le minacce che si sarebbero scatenate contro l’istituto familiare, la sua stabilità, la sua fecondità, e contro il senso stesso dell’amore tra i coniugi. Così è stato anche per il progresso della cultura. Da un lato,sanando la frattura che si era creata tra Chiesa e mondo moderno a partire dall’Illuminismo; e rimarginando le ferite ancora aperte dopo la lotta al Modernismo. Dall’altro lato, gettando le basi per una sintesi tra scienza e fede, e favorendo il passaggio a una concezione della cultura più direttamente antropologica: cioè, la cultura come fondamento dello sviluppo integrale dell’uomo.

Poi, i grandi temi sociali e politici. Anzitutto, la denuncia di quello che era considerato il “grande scandalo” del secolo, la fame nel mondo. Con la crescente convinzione, già allora, che tanto i regimi collettivistici quanto lo stesso capitalismo rappresentassero due visioni fallimentari dell’economia e dei rapporti sociali. Quindi, il progetto per un nuovo tipo di presenza della Chiesa nella società civile, e di fronte ai sistemi politici. Ritenendo possibile una più costruttiva collaborazione con lo Stato, pur mantenendo il principio dell’indipendenza e dell’autonomia nei rispettivi campi. E riconoscendo la secolarità della vita politica, il pluralismo delle scelte, e la responsabilità propria dei credenti in questo ambito.

Infine, l’accesissimo dibattito sulla prima sezione del quinto capitolo, “necessità di evitare la guerra”; e che rischiò, a un passo dalla chiusura del Concilio, di sfociare in una clamorosa bocciatura della Gaudium et spes. C’era chi, in nome del radicalismo evangelico, rigettava la teoria classica della moralità della guerra; e chi invece, tenendo conto della situazione mondiale, ammetteva sia il diritto di legittima difesa sia il possesso di armi come “deterrenza”. Finì con un compromesso, ovvero con la condanna diretta della sola guerra totale. Segnando tuttavia un primo superamento delle prospettive semplicemente morali e giuridiche. E creando le premesse per una sempre più forte presa di coscienza della responsabilità speciale, che hanno credenti e religioni, nel promuovere una autentica cultura della pace.

A questo punto, per la Gaudium et spes, terminava l’avventura conciliare, ma cominciava contemporaneamente il suo cammino, un cammino costante, e mai finito, nella storia dell’umanità. Ed ecco il perché dell’attualità di quelle parole: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce…”. Scritte cinquant’anni fa, è vero. Com’è vero che da allora sono radicalmente cambiati gli scenari politici, sociali, culturali, e gli stili di vita. Così come sono completamente diversi i volti che oggi esprimono le nuove speranze e, purtroppo, anche le nuove angosce di questo inizio di millennio.

Eppure, se si va al fondo di quelle parole, se si arriva al cuore dei problemi affrontati – pur in una differente prospettiva storica – dalla Gaudium et spes si capirà perché sia rimasto profondamente attuale, anzi, sia diventato ancora più attuale, l’interrogativo o quanto meno il dubbio che stava al centro della costituzione pastorale: i cambiamenti intervenuti nell’epoca contemporanea sono da considerarsi tutti “utili” al vero bene dell’umanità? E, questo soprattutto,si può pensare di costruire “un ordine temporale più perfetto, senza che cammini di pari passo il progresso spirituale”?

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