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Il mondo “liquido” di Bauman

Bauman e illusione della felicità

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 19/11/15

A 90 anni è il più famoso sociologo vivente, orgoglioso di essere "straniero" ovunque si trovi si confronta col dramma della perdita dei legami sociali

Zygmunt Bauman compie oggi 90 anni. E’ conosciuto come il sociologo che ha dato alla magmatica condizione della postmodernità l’accezione di “liquidità”, è un anima gentile con una storia lunga e travagliata alle spalle che affonda le sue radici nella Polonia, è nato a Poznam nel 1925. Ebreo ha subito l’ostracismo del nazionalismo polacco che voleva una patria “di soli cattolici”, giovanissimo si è innamorato del comunismo che gli permetteva di giocare a calcio senza venir picchiato in quanto “diverso”, ha combattuto al fianco dell’Armata Rossa per liberare il suo paese dal nazismo. Ha poi criticato aspramente il comunismo ed è stato cacciato da quello stesso paese che lo aveva decorato come soldato. Ripara prima in Israele del quale dice “Non volevo scambiare il nazionalismo polacco di cui sono stato una vittima, per il nazionalismo israeliano”, se ne andò in Inghilterra che elesse a sua dimora (abita a Leeds). In una recentissima intervista a Repubblica (18 novembre) ricorda gli anni difficili della gioventù quando l’impresa del padre fallì a causa della crisi: “Sì, fu una vicenda durissima. Un giorno in quel negozio vidi un cartello: “locale cristiano”. E accanto un altro: “compra dal polacco” (significa non comprare dagli ebrei, ndr). Frequentavo anche una biblioteca pubblica, finché vidi sullo scaffale la rivista Alla gogna. Non ci tornai più”.

“Alla gogna” era una delle più volgari riviste antisemite mai esistite. Nel 1939 Hitler invade la Polonia. Lei, appena 14enne, scappa in Urss, diventa piccolo comunista e si arruola nell’esercito polacco che combatte a fianco dell’Armata rossa. “Nel ginnasio sovietico posso finalmente correre sul campo dietro al pallone (e tuttora sono un tifoso: di squadre perdenti): nessuno mi dice che devo andarmene in Madagascar o in Palestina e, quando confesso il mio amore per le lettere polacche, nessuno mi ricorda che sono un ebreo e quindi non devo usurpare una cultura non mia. Il mio essere polacco è sempre risultato sospetto, come se l’appartenenza alla Polonia l’avessi rubata senza averne il diritto e così fino a oggi. Ma possiamo parlare anche delle mie idee e non solo della biografia?”. Nel 1968, in seguito alle manifestazioni degli studenti, lei, allora professore all’Università di Varsavia viene dichiarato il nemico pubblico numero uno, sia in quanto deviazionista, sia in quanto sionista (e cioè ebreo). Fino a metà degli anni Sessanta però lei è stato comunista ed è stata un’esperienza fondamentale. Cosa era il comunismo? “Il comunismo non è nato per miracolo né è caduto dal cielo, non è un prodotto dell’inferno. Segna invece una continuità con la storia. È uno dei risultati della riflessione filosofica, manifestatasi dopo il terremoto di Lisbona del 1755, che ha come scopo abbandonare l’atteggiamento da “guardaboschi” nei confronti del mondo a favore invece di una posizione da “giardiniere”. Il giardiniere sistema il mondo; sceglie le piante giuste, estirpa quelle nocive. Il comunismo non è un’utopia romantica, ma è figlio del secolo dei Lumi, di Voltaire e Diderot. E ha qualcosa di messianico. Trotzky si considerava forse come un messia degli ebrei, forse come una specie di Cristo, forse pensava al secondo Avvento”. E poi? “Infine, il comunismo è una tecnica di conquista del potere, tecnica golpista, tecnica che permette di ignorare i risultati delle elezioni, e che tende alla totale manipolazione delle coscienze e del linguaggio”. E con questa risposta ha spiegato anche perché a un certo punto smise di essere comunista. Ma l’adesione a cosa era dovuta? “Camus disse che la particolarità del Novecento stava nel fatto di causare il Male in nome del Bene. C’era il fascino del nuovo inizio, che a sua volta si basava sulla repulsione per il vecchio mondo. Nell’adesione al comunismo c’è molto del socialdemocratico Bernstein e di Walter Benjamin con il suo Angelo della storia. Il bolscevismo è stato una specie di Partito dell’azione. E, per quanto mi riguarda, ero un giovane soldato decorato con una medaglia al valore militare per aver partecipato alle cruenti battaglie di Kolberg e di Berlino. Non ero un intellettuale. Volevo che il mio povero e infelice Paese cambiasse”.

Con Avvenire (12 novembre) in un’altra intervista rilasciata pochi giorni fa, rilancia la sua ammirazione per papa Francesco, e svela una sua passione giovanile per la figura di Cristo e ai giovani consegna un testimone ideale per la costruzione di più giusto ed equo. Nell’intervista emerge una comunanza di visione col Papa.

Da uno dei suoi testi di riferimento, Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori), pubblicato nel 2000, prendo una frase che papa Francesco ricorda in continuazione: «La famigerata globalizzazione dell’economia e della finanza presenta un ulteriore aspetto, che potremmo definire “globalizzazione della miseria”». Nello stesso libro denunciava che, caduto il Muro di Berlino, ne era sorto un altro, il muro del Mercato. Perché la solidarietà e la giustizia non sono ancora riuscite a scalzare egoismo e inequità? «Il mercato consumistico – conosciuto per essere capace di addomesticare e sollecitare la cupidigia umana – e il tipo di vita umana che esso promette, una vita basata sull’esplicita o implicita promessa che tutte le strade per la felicità umana portano alla fin fine in un negozio a fare acquisti – ha causato la veloce crescita dell’ineguaglianza sociale, moltiplicando e approfondendo le divisioni tra gli uomini come un suo specifico, e forse inseparabile, effetto collaterale. La globalizzazione, nella forma assunta fin qui, significa anzitutto la diffusione di tali effetti in tutto il mondo. In questo senso essa era, e rimane, “globalizzazione della miseria”. Il compito di riformarla in una globalizzazione della dignità umana, della moralità e della felicità, spetta ai più giovani per essere realizzato». Un suo recente libro, edito da Laterza, con il teologo polacco Stanislaw Obirek si intitola Conversazioni su Dio e l’uomo. Oggi assistiamo, a livello globale, a una recrudescenza dello scontro intra-islamico tra sciiti e sunniti: la nascita del sedicente Stato islamico è visto da diversi osservatori come un sintomo di tale lotta intra-islamico. In che modo il pensiero laico può aiutare l’islam a riconciliare la religione con la modernità? «Non è in gioco la riconciliazione della religione con la modernità. Nessuna religione che io conosco è stata o è negligente nel dispiegare i prodotti più alla moda della modernità al servizio di quello che lei crede sia l’unica fede e nello sconfiggere chi lei considera eretici o pagani. Quel che è in gioco qui è qualcosa in più: la separazione della fede – ereditata o scelta – dai diritti umani; la relazione tra Dio e l’uomo come una questione di coscienza personale; il diritto universale di servire Dio in diversi modi, e il mutuo rispetto per queste modalità; l’essere di Dio come un Dio dell’umanità, non un Dio di tribù reciprocamente nemiche e antagoniste. In poche parole: un Dio di unità, non di divisione tra gli uomini; un Dio di amore, e non di odio».

E un ruolo profetico, di chi sa guardare oltre…

Il suo recente apprezzamento per la figura e le parole di papa Francesco hanno trovato vasta eco in Italia. Cosa vorrebbe chiedere o di cosa vorrebbe parlare con il pontefice se lo potesse incontrare di persona? «Papa Francesco non ha bisogno delle mie domande. Ogni giorno egli se ne esce con risposte a domande che io sto ancora cercando, e con successo a metà, di articolare. In un altro dialogo con Stanislaw Obirek (On the World and Ourselves, Polity 2015), il mio interlocutore ha spiegato così il saggio richiamo degli appelli di Jorge Mario Bergoglio: il papa dimostra “una certa empatia per l’umana fragilità e il peccato, e ancora di più, Francesco non eleva se stesso sopra di noi ma sta al nostro fianco”. Poco prima del settembre 1939, ovvero l’inizio della seconda guerra mondiale, lessi il libro di Emil Ludwig Figlio dell’Uomo. La storia di un profeta. Un racconto che mi impressionò moltissimo e sul quale mi ricordo di aver rimuginato per varie settimane, durante il mio viaggio attraverso la Polonia in fiamme e insanguinata. Ludwig, come ho sottolineato commentando la suggestione sopracitata di Obirek, assegnava all’eroe di questo racconto un dono che “ha spinto pescatori, artigiani, piccoli commercianti a riempire le case di preghiera per ascoltarlo quando arrivava da Nazareth. Le persone si accalcavano intorno a lui perché questo nazareno non portava loro un’altra litania di prescrizioni o normative, né prometteva tormenti infernali ai disobbedienti, ma annunciava la Buona notizia: egli portava la speranza”». Cosa accomuna dunque quel libro letto 70 anni fa e il papa attuale? «L’eroe del racconto di Ludwig portava un nuovo modo di essere ascoltato. Io sento che è questa l’impressione che i discorsi di papa Francesco trasmettono, sebbene si focalizzino sulle radici terrene del male e della miseria umana nel nostro mondo» .

In diverse occasioni Bauman mette a fuoco come la tecnologia abbia creato le condizioni del progressivo straniamento degli uomini dall’idea di una società coesa, l’individualismo, primaria causa della “liquidità” del tempo presente, fatto di connessioni sociali assai labili, senza più corpi intermedi autorevoli che accompagnino i cittadini, le persone, durante la propria vita. E’ la scomparsa dei partiti, dei sindacati, è la crisi delle parrocchie, dell’associazionismo, delle comunità. La paura della solitudine è stata gestita col rumore di fondo dell’istantaneo che non permette più di pensare, di ragionare, di costruire relazioni durature. L’informazione si è fatta martellante, al punto che viviamo in un eterno presente e pretendiamo risposte immediate ai nostri bisogni. In Bauman si può leggere in trasparenza un Pasolini, con la sua critica al consumismo. Sociologi come lui sono rari e permettono di avere una idea forte con cui per lo meno descrivere la realtà, che non è poco, ma è ad altri che viene lasciato l’ingrato compito di uscire dal pantano…

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