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«La comunione ai risposati non tocca la dottrina ma la disciplina»

padre giovanni cavalcoli

Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 16/10/15

Intervista con il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli

«Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza», l’eventuale ammissione a determinate condizioni e in determinati casi dei divorziati risposati ai sacramenti non tocca la dottrina né la sostanza del matrimonio e dell’eucaristia. Lo afferma in questa intervista con Vatican Insider il domenicano padre Giovanni Cavalcoli, filosofo metafisico e teologo dogmatico, docente emerito di metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia Dogmatica nella Facoltà Teologica di Bologna, membro ordinario della Pontifica Accademia di Teologia e condirettore della rivista telematica l’Isola di Patmos (isoladipatmos.com).

C’è chi afferma che qualsiasi cambiamento nella disciplina sacramentale riguardante i divorziati risposati rappresenterebbe un’«eresia» o comunque un attacco al cuore della dottrina dell’indissolubilità matrimoniale. È così?

«La disciplina dei sacramenti è un potere legislativo che Cristo ha affidato alla Chiesa, affinché essa, nel corso della storia e nel variare delle circostanze, sappia amministrare i sacramenti nel modo più conveniente e più proficuo alle anime e nel contempo nel rispetto assoluto alla sostanza immutabile del sacramento, così come Cristo l’ha voluta. L’attuale disciplina che regola la pastorale e la condotta dei divorziati risposati è una legge ecclesiastica, che intende conciliare il rispetto per il sacramento del matrimonio, la cui indissolubilità è un elemento essenziale, con la possibilità di salvezza della nuova coppia. La Chiesa non può mutare la legge divina che istituisce e regola la sostanza dei sacramenti, ma può mutare le leggi da lei emanate, che riguardano la disciplina e la pastorale dei sacramenti. Dobbiamo quindi pensare che un eventuale mutamento dell’attuale regolamento sui divorziati risposati, non intaccherà affatto la dignità del sacramento del matrimonio, ma anzi sarà un provvedimento più adatto, per affrontare e risolvere le situazioni di oggi».

Concedere, in determinati casi e a determinate condizioni (per esempio dopo un percorso penitenziale, o nel caso del coniuge abbandonato, etc.) la comunione ai divorziati che vivono una seconda unione tocca la disciplina o la sostanza del sacramenti del matrimonio e dell’eucaristia?

«Tocca chiaramente la disciplina e non la sostanza. Per un cattolico è assolutamente impensabile che un sinodo sotto la presidenza del Papa possa compiere un attentato alla sostanza di qualunque sacramento. Il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia, che sono stabilite dalla Chiesa secondo la sua prudenza, che è sempre rispettabile, benché non infallibile. Da qui il mutamento o l’abrogazione delle leggi della Chiesa».

Lei ha scritto: il dogma non può cambiare mentre le disposizioni pastorali possono mutare. Che cosa significa, nel caso in questione?

«Significa che la Chiesa in varie occasioni solenni, per esempio al Concilio di Trento o al Concilio Vaticano II, o nell’insegnamento di alcuni Papi, come Pio XI o San Giovanni Paolo II, ha definito autorevolmente l’essenza del sacramento del matrimonio e dell’eucaristia. È chiaro che questi insegnamenti, che riflettono la stessa Parola di Dio, così come ci è stata insegnata dal divino Maestro, non possono mutare. Invece, lo stabilire le circostanze, le condizioni, il come, il dove, il quando, l’a chi amministrare i sacramenti, Cristo lo ha affidato alla responsabilità dell’autorità ecclesiastica nelle leggi canoniche, come nelle direttive e norme pastorali o disciplinari a tutti i livelli, dal Papa, alla Santa Sede, fino ai vescovi. La Chiesa, quindi, è infallibile quando riconosce, codifica e interpreta la legge divina, si tratti della legge morale naturale o rivelata; ma nel momento in cui emana leggi, che ne dispongono la loro applicazione nella varietà o accidentalità delle circostanze storiche o in casi particolari, queste leggi assumono un valore semplicemente contingente, relativo e temporaneo, per cui, al sopravvenire di nuove circostanze o per una migliore conoscenza della stessa legge divina, richiedono di essere mutate, abrogate, corrette o migliorate,  s’intende sempre per una nuova disposizione dell’autorità. La legge ecclesiastica dà determinatezza all’indeterminatezza della legge divina, si fonda su di essa e ne è una conseguenza nell’ordinare la prassi concreta. Tuttavia il suo nesso con la legge divina non ha la necessità logica assoluta che possiedono, in un sillogismo, le conseguenze rispetto alle premesse, sicché un mutamento nelle conclusioni comporterebbe un mutamento e quindi una falsificazione nelle premesse o nei principi. Invece il detto nesso è solo di convenienza, per quanto in coerenza e armonia con la legge divina, in modo simile a quello che si può dare tra una meta e i mezzi per conseguirla. La meta può essere fissa e irrinunciabile, ma i mezzi possono mutare ed essere diversi. La legge della Chiesa è un mezzo per applicare la legge di Cristo. Questa è assoluta e immutabile; la legge della Chiesa, per sua stessa natura e per volontà di Cristo, per quanto illuminata e animata dalla fede, resta pur sempre una legge umana, con i limiti propri di questa. Occorre quindi rispettare scrupolosamente la natura di questo nesso, evitando da una parte la rigidezza di un conservatorismo rigorista, che rifiuta il cambiamento della legge ecclesiastica in nome dell’immutabilità della legge divina e, dall’altra, il modernismo storicista e lassista, che, col pretesto della mutabilità della legge ecclesiastica e del suo dovere di tener conto della modernità e della debolezza umana, annacqua e relativizza la legge del Vangelo».

Leggendo alcune affermazioni anche in relazione al dibattito sinodale, si ha l’idea che la Tradizione venga quasi ipostatizzata e fissata come fosse un testo immutabile, sulla base del quale ci si arroga poi il diritto di giudicare tutti, compreso il Papa, facendogli l’esame di «cattolicità». Può spiegarci che cos’è la Tradizione?

«La Sacra Tradizione, come dice la parola, è la trasmissione orale e fedele del dato rivelato, è la predicazione apostolica della Parola di Dio nel corso della storia, è un Magistero vivente, assistito dallo Spirito Santo, trasmissione che Cristo ha affidato agli apostoli e ai loro successori sotto la guida di Pietro, di generazione in generazione, fino a oggi, fino a Papa Francesco e fino alla fine del mondo. La Sacra Tradizione, insieme con la Sacra Scrittura, è la fonte della Rivelazione, ossia della dottrina della fede cattolica, riassunta dal Credo, che ci viene interpretata e insegnata dal Magistero della Chiesa sotto la guida del Papa. Certamente la Tradizione contiene la dottrina immutabile del Vangelo ed è criterio assoluto della verità della fede, ma insieme e congiuntamente alla Scrittura nell’interpretazione che ne dà la Chiesa sotto la guida di Pietro. Non è quindi lecito il metodo di certi cattolici di appellarsi direttamente alla Tradizione per criticare il Magistero del Papa e della Chiesa, come per esempio le dottrine del Concilio Vaticano II, perché il Magistero della Chiesa, per volere stesso di Cristo, è custode supremo, infallibile e insindacabile della Tradizione e quindi non ha senso voler correggere il Papa o il Magistero in nome della Tradizione, la quale, per la scorrettezza di questa operazione, viene con ciò stesso falsificata. Inoltre, bisogna tener presente che i dati della Tradizione sono certo in se stessi immutabili, essendo Parola di Dio; ma la Chiesa e quindi tutti noi sotto la guida della Chiesa stessa, per esempio dei Concili, progrediamo verso una sempre migliore conoscenza di quei medesimi dati. E quindi, in tal senso, si può e si deve parlare, come disse il beato Paolo VI, di uno “sviluppo” della Tradizione, che non ha nulla a che vedere con un impensabile mutamento o cambiamento di senso dei suoi contenuti, ma si riferisce solamente al progresso della conoscenza che ne abbiamo.

Può fare degli esempi di approfondimenti avvenuti nel corso della storia della Chiesa che hanno mutato la disciplina sacramentale o sviluppato la dottrina sul matrimonio e la famiglia?

«Per quanto riguarda il sacramento della penitenza, la Chiesa è passata dalla prassi dei primi secoli di una sola celebrazione nel corso della vita, alla raccomandazione attuale della confessione frequente, che risale alla riforma tridentina. Nei primissimi secoli le seconde nozze erano sconsigliate. Nel secolo XVII il sacramento dell’ordine non poteva esser conferito a soggetti di razza mista. La pratica comune della comunione quotidiana risale solo ai tempi di San Pio X. Fino ai tempi di San Pio X esisteva la figura giuridica dell’”haereticus vitandus”. Il Magistero presenta per la prima volta l’atto coniugale come “segno e incentivo all’amore” solo nella “Humanae vitae” di Paolo VI. Gli impedimenti giuridici al matrimonio in passato erano diversi da quelli di oggi. Paolo VI ha abolito i cosiddetti “ordini minori”, un tempo necessari per accedere al sacerdozio. Solo con la riforma conciliare alle donne sono consentiti ministeri liturgici un tempo riservati solo agli uomini. Fino alla riforma conciliare, il sacramento dell’unzione degli infermi, detto significativamente “estrema unzione”, veniva dato solo ai moribondi. Oggi è sufficiente l’anzianità avanzata o la malattia grave, per cui può essere facilmente reiterato. Il Papa stesso col suo recente Motu proprio ha modificato il regolamento delle cause di nullità del matrimonio».

La condizione del divorziato che vive una seconda unione è di per sé peccaminosa?

«Non esistono “condizioni peccaminose”, perché il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente. L’atto del peccato può essere prolungato nel tempo, come può avere per sua essenza una durata temporale (per esempio un furto in una banca); ma, trattandosi di un atto della volontà, può essere interrotto in qualunque istante e comunque cessa entro un certo lasso di tempo, una volta che l’atto è compiuto. Quello che è permanente in noi per tutta la vita, anche nei migliori, è la tendenza a peccare, conseguenza del peccato originale, per la quale pecchiamo spesso almeno leggermente o venialmente. Ma questa tendenza, con la grazia divina e la buona volontà può, entro una certa misura, esser limitata o tenuta a freno, così da poter evitare almeno il peccato mortale. Il problema dei divorziati risposati è che l’adulterio, con l’aggravante del concubinato, è peccato mortale. Per cui è molto facile che la coppia, unendosi, cada in peccato mortale. Tuttavia è possibile il caso di una coppia, che si trovi in una situazione oggettiva e insuperabile, dalla quale, per vari motivi, non possa uscire per tornare allo stato precedente: per esempio, il coniuge precedente ha figli con un altro, o la nuova coppia ha figli. Certo, dopo l’atto del peccato, se non interviene il rimprovero della coscienza e il pentimento, anche cessato l’atto, resta uno stato di colpa. In questo caso la volontà resta deviata ed ha bisogno di essere raddrizzata, cosa che può e deve fare la stessa volontà, sotto l’impulso della grazia. E questo può essere ottenuto grazie al perdono divino, quale che sia la situazione oggettiva, nella quale si trova il peccatore, fosse pure quella del divorziato risposato. Esistono a volte condizioni nelle quali è facile peccare, perché costituiscono forti spinte od occasioni praticamente inevitabili di peccato. Tra le condizioni di questo tipo c’è certamente quella dei divorziati risposati, i quali vivono in un’unione adulterina, legati uno dei due o tutti e due, come si suppone, a un precedente legittimo matrimonio. In passato la Chiesa ha dato diposizioni pastorali atte a consentire a queste coppie di mantenersi in grazia di Dio, pur essendo escluse dai sacramenti. Esse possono ottenere il perdono dei peccati direttamente da Dio, anche senza accedere al sacramento della penitenza. Oggi la questione dibattuta è se il consentir loro di accostarsi alla Santa Comunione può servire a loro per l’aumento della grazia e la difesa contro il peccato, oppure se può crear scandalo e turbamento tra i fedeli».

Nella relazione introduttiva del Sinodo tenuta dal cardinale Erdö si è citato l’«Instrumentum laboris» là dove si distingue tra malizia oggettiva – o difformità tra il progetto di Cristo – e le contingenze che diminuiscono l’imputabilità dell’atto. Potrebbe essere questa una via per arrivare a delle concessioni non come legge generale ma come attenzione ai casi particolari?

«Sì, in quanto, nell’ipotesi da verificarsi con attenzione, che la coppia si trovi in una situazione del tipo di cui parlavo nella risposta precedente, i due sarebbero esposti in continuazione alla pressione di un’occasione o spinta inevitabile del peccato; per cui si potrebbe ammettere certamente l’esistenza della colpa soggettiva, oltre alla malizia oggettiva del peccato, ma con attenuazione dell’imputabilità a causa della forte occasione inevitabile, che vince la resistenza di una buona volontà contraria. Per cui il volontario, tipico dell’atto peccaminoso, in questo caso resta diminuito a causa della forza soverchiante della tentazione. Naturalmente anche nell’ipotesi di imputabilità attenuata, anche questa colpa dev’essere espiata grazie a un continuo e perseverante cammino di conversione e di penitenza, che potrebbe essere indicato dalla Chiesa stessa».

QUI L’ORIGINALE

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