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Le due malattie che uccidono la fedeltà

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Padrefaus.org - pubblicato il 07/10/15

Solo la fedeltà che impara ad attraversare e a superare le prove ci rende grandi, realizzati e felici

Non so se conoscete la storia di John Henry Newman, una delle personalità intellettuali e spirituali più elevate della storia moderna dell’Inghilterra. Non vi racconterò la sua biografia, limitandomi a riassumerla a grandi linee.

Prima della sua conversione al cattolicesimo nel 1845, era una figura di enorme rilievo all’Università di Oxford e nella Chiesa d’Inghilterra: come intellettuale, come universitario, come finissimo teologo, come il più amato predicatore di Oxford (era presbitero anglicano), come uno dei migliori scrittori della sua epoca.

Per chi conosce un po’ di storia, abbandonare l’anglicanesimo e passare al “papismo” era nell’Inghilterra dell’epoca condannarsi all’ostracismo. Dovette lasciare Oxford (dove era ancora proibita la presenza di cattolici), abbandonare i propri mezzi di sussistenza, perdere la maggior parte degli amici e cadere nel sospetto dei colleghi.

Fu ben accolto tra i cattolici? All’inizio con grande gioia, ma poi capì che non era compreso. Le sue intuizioni e i suoi piani – eccellenti, e applicati con grande efficacia – per l’approfondimento e la diffusione della fede cattolica tra gli intellettuali suscitarono sospetti. Uno ad uno, i suoi progetti pieni di zelo e sapienza vennero soffocati. Anche nella Curia romana c’erano autorità che lo guardavano con timore. Mi ricorda quello che dicevano a San Josemaría Escrivá alcuni esponenti della Curia, gente bravissima e benintenzionata, quando chiese l’approvazione pontificia dell’Opus Dei: “È un’opera meravigliosa, ma è arrivata con un secolo di anticipo”.

Tutto si chiarì quando Newman era già anziano e sofferente. Papa Leone XIII rallegrò il suo cuore creandolo cardinale, il massimo onore che può ricevere un sacerdote cattolico. Benedetto XVI lo ha elevato agli onori degli altari, beatificandolo il 19 settembre 2010 a Birmingham – dove trascorse i suoi ultimi anni di vita – in una cerimonia che è stata come un’acclamazione collettiva di tutti i cattolici d’Inghilterra e del mondo al beato John Henry Newman.

Come ha affrontato i lunghi anni di incomprensione e di apparenti fallimenti, uno dopo l’altro? Con fede e amore, senza giudicare le persone che diffidavano di lui. Crescendo nella preghiera e nelle virtù. Offrendo la sua sofferenza. Diventando un santo. Vari dei suoi vecchi amici gli suggerivano di abbandonare la Chiesa cattolica e di tornare all’anglicanesimo. Un giornale arrivò ad annunciarlo come fatto consumato. Il sant’uomo reagì e pubblicò uno scritto ammirevole, nel quale dice tra le altre cose:

“La mia fede nella Chiesa cattolica non è stata scossa neanche per un istante da quando sono stato accolto nel suo seno. Sostengo e sosterrò sempre che il Sovrano Pontefice [il papa] è il centro dell’Unità e il Vicario di Cristo; ho sempre avuto e continuo ad avere una fede senza restrizioni in tutti gli articoli del suo Credo, una suprema soddisfazione nel suo culto, nella sua disciplina, nel suo insegnamento, e un ardente desiderio, una speranza contro ogni speranza, che i numerosi amici che ho lasciato nel protestantesimo verranno un giorno a condividere la mia felicità (…). Tornare alla Chiesa d’Inghilterra? Mai! ‘La rete è stata rotta e noi siamo liberi’. Sarei completamente pazzo (per usare un termine moderato) se nella mia vecchiaia lasciassi la ‘terra dove scorrono latte e miele’ e la scambiassi per la città della confusione e la casa della schiavitù” [1].

La gioia che nasce dalla fedeltà

Prendiamo come paradigma un uomo fedele alla sua fede e alla santa Chiesa. La stessa “qualità” dovrebbero averla tutte le fedeltà della vita – sia la fedeltà di una coppia al suo impegno matrimoniale che quella di un cristiano impegnato in una missione apostolica, come quella di un sacerdote o di un religioso alla sua vocazione…

Parlare di “impegno” per molti è quasi dire una brutta parola. Ci si vuole vedere liberi da qualsiasi legame, come una foglia alla mercè di tutti i venti. Non si promette niente sul serio, non si assume niente sul serio. Il mondo sembra essere sempre più infettato dalla malattia della provvisorietà.

È solo la fedeltà, tuttavia, che impara ad attraversare e a superare (non solo a sopportare) le prove e ci rende grandi, realizzati e felici. Chi scarta la fedeltà come un’oppressione della libertà morirà come quell’uomo del Vangelo che ha suscitato risate tra la gente perché “ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro” (Lc 14, 30). Sarà un frustrato che si è fatto portare dal soffio variabile della libertà malintesa e ha finito per cadere nel nulla.

Naturalmente, per poter assaporare la gioia della fedeltà bisogna avere un ideale, un senso per la vita, superiore a quello del cedere ai desideri momentanei: un ideale che ci dia la forza di affrontare, di lottare, di superare, che non ci lasci limitati a reagire, a reclamare e a fuggire.

Due malattie mortali della fedeltà

La fedeltà condizionata

È quella della persona che nei suoi impegni “vitali” (quelli che definiscono il senso della vita) non sa dire un “sì” pieno, come il “fiat” della Madonna (cfr. Lc 1, 38).

Queste persone hanno il “sì” inquinato dal “se”, dal condizionale: “Sarò fedele se non sarà difficile continuare, se non sarà noioso, se non mi stancherò di vivere con la stessa persona o di fare le stesse cose…”.

L’incapacità di decidersi ad assumere degli impegni con fede e forza spiega l’inconsistenza di molte vite attuali. Per gli egoisti, per quelli che non vogliono saperne della grandezza dell’amore, la parola “assumere” è sostituita dalla parola “sperimentare”: “Sperimenterò, vedrò se mi piace, vedrò se non mi stanco, vedrò se va bene… Altrimenti, lascio tutto”.

Nel libro Il Signore degli Anelli, Tolkien mette in bocca a uno dei personaggi una frase sulla quale dovremmo meditare: “Sleale è colui che si accomiata quando la via si oscura”.

Quando diventa scuro, quando le cose diventano difficili o le circostanze o le persone ci disorientano, insomma, quando c’è una crisi, è il momento in cui Dio ci dà l’opportunità e la grazia di “superare” quella situazione e di “superarci”, di superare noi stessi.

Ogni crisi può essere una crisi di crescita (come quella dell’adolescenza) o una crisi terminale (come quella del paziente disilluso). Il male consiste nel fatto che quasi tutti affrontano come terminali crisi che agli occhi di Dio dovrebbero essere di crescita. Dovrebbero essere una fase decisiva della vita, in cui impariamo a spogliarci dell’immaturità, di egoismi banali, di frivolezza, scambiando queste cose con virtù che non avevamo e che ora possiamo acquisire: distacco, umiltà, forza, prudenza, donazione… Le crisi sono una porta aperta a un amore maggiore, temperato nel dolore.

Chi non ha provato a fare questo non conosce la gioia di essere fedele. San Paolo l’ha sperimentata in modo tale che, quando era prigioniero e sul punto di essere martirizzato, ha scritto in prigione quello che definirei l’epitaffio felice di una vita realizzata: “È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2 Tm 4, 6-7).

La fedeltà di manutenzione

È la fedeltà della persona che non abbandona la barca, ma si limita a “toccare” la vita con una routine tiepida e spenta.

Alcuni sembrano essere fedeli per pura inerzia. Il marito e la moglie continuano a vivere insieme, ma senza rinnovamento di sentimenti e atteggiamenti, senza dialogo fecondo e senza nuove iniziative. L’allegria della vita familiare suona per loro come il sogno ingenuo della luna di miele. Cosa direbbero se sentissero San Josemaría dire loro, come ripeteva alle coppie di qualsiasi età, “Dovete trattarvi come se foste sempre fidanzati”?

“Non dimenticate – diceva loro – che il segreto della felicità coniugale è nella quotidianità, non nei sogni. Sta nel trovare la gioia nascosta di arrivare a casa; nel rapporto affettuoso con i figli; nel lavoro quotidiano, al quale collabora tutta la famiglia; nel buonumore di fronte alle difficoltà, che vanno affrontate con spirito sportivo” [2].

Cose analoghe si dovrebbero dire sulla fedeltà di laici, sacerdoti e religiosi alla vocazione e alla missione divina nella quale si sono impegnati.

La fedeltà di manutenzione è per i tiepidi un mero vegetare accomodato. Hanno dimenticato la parola “più” e la parola “oltre”. Come diceva Ernest Hello, “se non esistesse la parola ‘esagerazione’, l’uomo mediocre l’inventerebbe” [3].

Come evitare queste due malattie? Tra le altre cose, vedendo se riusciamo a dare una risposta positiva (con la testa, il cuore e le azioni) a queste domande:

─ Ho “mete” o vado solo a impulso? Ovvero, mi propongo frequentemente modi concreti – chiari e definiti – per dare di più, per rallegrare di più gli altri, per aiutare di più, spezzando così la routine?

─ Parlo con Dio di questo desiderio di superamento? Medito, prego, leggo libri di spiritualità, cerco consigli ed esperienze per uscire dalla mia monotonia e per rinnovare i miei impegni?

─ Se mi chiedessero di scrivere su un foglio le sfide di superamento che mi propongo per compiere un salto di qualità o per superare una crisi, lascerei il foglio in bianco? Quante righe riuscirei a scrivere?

Vorrei terminare chiedendovi di meditare le parole che Cristo utilizza per aprire la porta del Cielo a un’anima che è stata fedele fino alla morte: “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21).

[1] Cfr. Paul Thureau-Dangin, Newman católico – A fidelidade na provação, Cultor de Livros, São Paulo 2014, pp. 58-59

[2] Questões atuais do Cristianismo, 3ª ed. Quadrante, São Paulo 1986, n. 91

[3] E. Hello, L’homme, Ed. Perrin, Paris 1911, p. 60

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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