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Quanto ebraismo nell’infinito

Giacomo Leopardi

© Public Domain / Wikipedia

L'Osservatore Romano - pubblicato il 14/05/15

​Leopardi e lo studio della Bibbia

Nel breve percorso di attraversamento dell’opera leopardiana, teso a trovare presenze o echi di memoria biblica, abbiamo distinto alcuni periodi di vicinanza/lontananza dal testo biblico, corrispondenti a diversi momenti della sua non lunga vita. Un primo tempo è quello delle lezioni di dottrina, degli esercizi retorici applicati a temi e argomenti biblici; prevalgono gli exempla, siano le lezioni gesuitiche di storia sacra o altri modelli di religiosità preromantica in voga (si pensi solo al Varano e al successo delle sue “visioni”).
Giacomo Leopardi in un disegno di Tullio Pericoli
Tre ragazzini — Giacomo, Paolina, Carlo — sono dunque alle prese con i primi studi e con le tappe dell’educazione religiosa confermata dai sacramenti e devono dimostrare di conoscere e riprodurre se necessario episodi di “storia sacra”. A livello più personale e profondo si innesta però anche il sedimento di quelle «favole antiche» che in diverso modo hanno sollecitato fantasia e immaginazione.
Poi, dal 1813, il ragazzo non si accontenta più solo delle prove di bravura in prosa e in versi, in italiano e in latino, per mostrare la sua devozione di piccolo erudito: comincia infatti quasi da solo a studiare greco ed ebraico; se ci si chiede il perché di queste scelte, nel momento di una conquistata autonomia di studi (licenziati i vari precettori), è possibile rispondere che essa era quasi obbligata, era legata al presumibile destino assegnato a Giacomo dalla famiglia: una carriera ecclesiastica, affrontata con i dovuti crismi e tutte le competenze in grado di assicurargli un posto di rilievo nelle gerarchie, assommando la nobiltà di natali all’accurata preparazione, basata sulla conoscenza diretta e approfondita delle Scritture, non certo comune non solo nel basso ma anche nell’alto clero del tempo.

Il rifiuto progressivo di questo percorso predestinato si accompagna alla sua rivolta, al fallito tentativo di fuga, ai difficili rapporti con la famiglia da un lato, ai tentativi di trovare una sua collocazione di studio e di lavoro a Roma, Firenze, Bologna, Milano, ancora Firenze e infine Napoli dall’altro. Senza grandi esiti, con gravi frustrazioni, con periodici ritorni a Recanati, con nuove fughe e alla fine con l’umiliante richiesta — data la salute ormai decisamente malferma — di un sostegno familiare che alla fine gli verrà concesso.

La rivolta si accompagna a un deciso allontanamento dalla pratica religiosa e dall’adesione al cristianesimo; da questo punto di vista l’Inno ai patriarchi, del 1822, si potrebbe considerare un frutto tardivo, un ripensamento di una storia sacra dentro una più generale visione di una storia dell’umanità privata della sua età dell’oro, ma estranea a ogni storia di salvezza.

Tra questo inno e i più tardi affioramenti di Giobbe e Qohelet, dalla fine degli anni Venti, si situa però un’esperienza decisiva, l’esperienza mistica e laica dell’Infinito, del 1819. Di questa lirica, Stefano Levi Della Torre ha dato una profonda lettura, dichiarandola mossa da uno sguardo ebraico su un testo non ebraico: «Notiamo di sfuggita che la parola-chiave del nostro tema, silenzio, compare due volte in questi quindici versi (“sovrumani silenzi”; “infinito silenzio”); e che l’infinito, sia in senso spaziale (“interminati spazi”) sia in senso temporale (“e mi sovvien l’eterno”), è parola chiave della mistica ebraica: En Sof (Non c’è fine), designazione del divino (…). Nell’Infinito di Leopardi c’è questa doppia dimensione dell’esserci e dell’essere. Ecco Leopardi in un suo esserci determinato, seduto su una panchina, sotto le piante e presso una siepe; e la sua mente è attraversata dalla sensazione dell’essere, nella forma dello spazio e del tempo (l’eterno, e l’interminato spazio). Sente l’essere come luogo del suo esserci (com’è detto: “Non il mondo è il luogo di Dio, ma Dio è il luogo del mondo”). E sente il suo esserci come occasione dell’essere. Sente il suo essere-lì come cassa di risonanza dell’essere; e l’essere come cassa di risonanza del suo essere-lì: «esserci essendo», appunto. “E il naufragar m’è dolce in questo mare”; quest’ultimo ossimoro (“naufragar dolce”) mi pare l’espressione più pura dell’amore mistico, di un’integrazione di sé con l’infinito, valicando i confini della coscienza individuale (“s’annega il pensier mio”). È un movimento pieno di gratitudine (“m’è dolce”) anche se non ha Persona a cui dire grazie».

QUI L'ORIGINALE

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