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Dalle grinfie della mafia si può uscire. Lei lo ha fatto

Maledetta mafia

© Flickr/Giuseppe Martino™/Creative Commons

Roberta Sciamplicotti - Aleteia - pubblicato il 29/03/15

Piera Aiello racconta la sua storia

“Mi sono ricostruita una vita lottando con le unghie e con i denti. Sono riuscita a rifarmi una famiglia superando migliaia di difficoltà e cercando di conciliare le mie due vite: la vita da testimone di giustizia e la vita da persona normale. Non dico che oggi sono tranquilla, o immune dai rischi della vendetta dei mafiosi: so che non potrò mai esserlo. Ma sono tornata ad essere una persona con un nome, un cognome, un indirizzo di casa. E con la possibilità, dopo tanti sacrifici, di continuare a pronunciare ogni giorno una frase semplice da donna libera. Bastano due sole parole. Maledetta mafia”.

Così termina il libro scritto da Piera Aiello con il giornalista Umberto Lucentini “Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino” (San Paolo), che racconta la vicenda di una donna coraggiosa, nuora e moglie di mafiosi assassinati che ha deciso per il bene di sua figlia e per amore della giustizia di collaborare con le autorità anche a costo di abbandonare la propria identità.

Braccata”
Piera Aiello nasce il 2 luglio 1967 a Partanna, in provincia di Trapani. Uno dei mafiosi del paese è don Vito Atria, che quando Piera, fidanzata con suo figlio Nicola, gli chiede perché lo definiscano “mafioso” le dice che quel termine descrive un uomo coraggioso che con le buone o con le cattive maniere ottiene ciò che vuole.

A tre anni dall'inizio del fidanzamento, Piera capisce che Nicola non è la persona adatta a lei. Scopre che fa uso di droghe, ha amici che a lei non piacciono e soprattutto la tradisce. Lascia Nicola, ma don Vito le dice: “Ovunque andrai e qualunque cosa farai, tu sarai la nuora di don Vito Atria, sarai la madre dei miei nipoti”.

“In poche parole mi dice che non ho scelta, mi minaccia, non mi dà alternative: devo sposare Nicola. Mi sento in trappola, ma non vedo vie di fuga”. Alla fine Piera e Nicola si rimettono insieme, e il 9 novembre 1985 si sposano. Mentre sono in viaggio di nozze a Madrid, don Vito viene assassinato.

Dopo quell'episodio, il padre di Piera inizia ad accorgersi che Nicola frequenta a Partanna gente poco affidabile, così le dice che ha saputo di un bar in vendita a Montevago, uno dei paesi della Valle del Belice, e vuole comprarlo per i novelli sposi.

È all'epoca, due anni dopo il matrimonio, che Piera scopre di essere incinta. Nicola vuole un maschio, lei gli dice che vuole una femmina perché il suo esempio di padre non era quello che cercava per suo figlio. Nicola la picchia, e sarà solo la prima di una lunga serie di volte. Nata Vita Maria, Nicola si rivela un padre affettuoso, “ma dentro di sé ha un tarlo che lo consuma lentamente: l’odio per chi ha ucciso suo padre”.

Una sera entra nel bar che hanno presto in gestione uno dei giovani delinquenti che Nicola ha frequentato per anni a Partanna. È soprannominato “il selinuntino”, perché nato nella zona di Selinunte. “Saluti, convenevoli, il caffè come scusa per intrattenersi qualche minuto con Nicola. Appena 'il selinuntino' va via, si avvicina a Nicola un cliente che ha visto la scena e che gli fa una domanda, forse in modo del tutto casuale, che però riporta mio marito indietro nel tempo. 'Ma come, Nicola: dici che vuoi vendicare la morte di tuo padre e poi frequenti chi l’ha ucciso?'”.

È l'inizio di un incubo. Nicola comincia in modo quasi ossessivo a interessarsi di nuovo dell’uccisione del padre. Insieme a due partannesi progetta di uccidere “il selinuntino”, che però rimane solo gravemente ferito. Nicola è in pericolo, e poco dopo viene ucciso. Quando Piera va a riconoscere il corpo, il sostituto procuratore, una ragazza sua coetanea, le chiede di andarla a trovare in procura e le dà un bigliettino, che lei accetta mentre la suocera non guarda.

La svolta
Lì inizia il cambiamento. Piera inizia a confessare ciò che sa al maresciallo di Montevago. Seguono altri incontri nella caserma dei carabinieri di Terrasini, e lì Piera conosce Paolo Borsellino. Per motivi di sicurezza in seguito va a Roma, poi torna in Sicilia per iniziare a verbalizzare i suoi racconti. “Sono un fiume in piena. No, non voglio smettere di parlare: raccontare tutto quello che so mi consente di liberarmi di anni di violenze fisiche e psicologiche”.

Dopo un po', però, rischia di non reggere alla pressione. “Borsellino a questo punto mi prende per le braccia, mi spinge con dolcezza e mi mette davanti allo specchio”; “mi tiene stretta, vedo la mia immagine riflessa e dietro di me l’immagine di Borsellino. Il giudice mi fa questa domanda: 'Piera, tu cosa vedi allo specchio?'. E io: 'Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrogativo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io, zio Paolo?' [come Piera chiamava il magistrato] . Lui mi guarda fissando i miei occhi che si riflettono sullo specchio. E dice: 'Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità'”.

Piera aveva informato subito la sorella minore di Nicola, Rita, della sua volontà di testimoniare contro la mafia e di raccontare tutto ciò che sa. Rita, che ha 17 anni, vuole seguire il suo esempio. Va a Roma con Piera.

Ricominciare
La morte di Giovanni Falcone e poi quella di Paolo Borsellino sono uno shock per le due ragazze. I funzionari dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia decidono che è opportuno mandarle tutte e due in Sicilia, ma Rita vuole restare a Roma. Prima vivevano insieme, poi a Rita è stata assegnata una monocamera al settimo piano di un palazzo, ed è da lì che si getterà nel vuoto dopo aver scritto con la matita una frase sul muro: “Il mio cuore senza di te non vive”. Piera capisce che è “un messaggio che Rita rivolge alla sua ultima stella che si è spenta, lo 'zio Paolo'”.

Piera va avanti. Grazie a un direttore scolastico comprensivo, riesce a iscrivere sua figlia a scuola anche se mancano ancora i documenti che ne attestino la nuova identità, che arrivano solo quando la bambina sta terminando le scuole elementari. Solo in prima media riesce a iscrivere la figlia a scuola con la sua nuova identità. “Quel dirigente scolastico è la stessa persona che quando, anni dopo, ottengo il diploma di maestra elementare, mi permette di svolgere il tirocinio con un nome di copertura”.

A Milazzo, in provincia di Messina, nasce nel frattempo l'“Associazione Rita Atria”. Presidente viene nominata Nadia Furnari, una studentessa che cerca di far arrivare dei messaggi a Piera per raccontarle la vita dell'associazione. Ci riesce, e alla fine le due ragazze si incontrano e stringono un legame molto forte. “Quante volte penso che se Rita avesse avuto un’amica come Nadia oggi sarebbe ancora con noi”, confessa Piera, che oggi parla della sua vicenda a tanti studenti per far capire loro cos'è la mafia e che se ne può uscire.

Con il suo libro, Piera vuole “dimostrare che, se si vuole, la mafia può essere combattuta e vinta: è un fenomeno che non avrà fine finché ci sarà omertà, paura a schierarsi contro i boss. Finché c’è chi subisce le angherie e i soprusi, e farà finta che la mafia non esiste, allora sì che non sarà possibile sconfiggerla. È un errore pensare che bastino pochi uomini valorosi, pochi eroi diventati simboli, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per battere Cosa nostra, la camorra, la ‘ndrangheta. No, prima di tutto bisogna far capire ai giovani che non si può vivere come gli animali, soggiogati dai boss”.

Nella postfazione, don Luigi Ciotti – la cui intercessione ha permesso che fosse celebrata una Messa per Rita, che non aveva potuto avere un funerale in quanto suicida – definisce Piera “una donna coraggiosa che ha detto no a una schiavitù sottile, fatta di mentalità, codici e abitudini tramandate negli anni e nei decenni”.

Per don Ciotti, la mafia è innanzitutto “una prigione dell’anima”, “la rassegnazione a non pensare e a non sperare”. “Piera si è ribellata a tutto questo”. Nel 1997 è uscita dal programma di protezione, decisa a rifarsi una vita.

“A tutti faccio una promessa”, scrive nel libro. “Combatterò fino alla fine dei miei giorni per far sì che io possa tornare a camminare a testa alta lungo le strade di Partanna. Con la convinzione sempre più profonda di avere fatto la scelta giusta”.

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