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Stress: come influisce sulla vita spirituale e come combatterlo?

Young businessman who sits on a chair at the top of the mountain and looks into the sky

© Patrick Foto/SHUTTERSTOCK

Centro de Estudios Católicos - pubblicato il 12/11/14

Gli antichi maestri del deserto avevano un metodo per recuperare la consapevolezza dell'amore di Dio, fonte di pace

Di recente, mentre contemplavo un tramonto in riva al mare ho cercato di ricordare quando era stata l'ultima volta in cui avevo fatto caso a un tramonto di quel tipo, meravigliandomi per la bellezza dell'oceano e la sua enigmatica immensità. Con l'armonia e la perfezione delle onde. Con l'agile volo degli uccelli per prendere un pesce.

Un'idea ansiosa ha invaso la mia mente: l'agitazione dell'oceano poteva interrompere quella serenità? Come saperlo? In più di un'occasione, permettiamo che pensieri di questo tipo ci turbino. Quando eravamo bambini ci preoccupavamo tanto quando andavamo in spiaggia?

Pensando a quel tramonto, mi sono ricordato dell'acuta osservazione dello scrittore britannico C. S. Lewis: “Ci preoccupiamo di ieri. Ci preoccupiamo di oggi. Ci preoccupiamo di domani. Semplicemente ci preoccupiamo”.

Questi pensieri ci rendono persone troppo ansiose e stressate? Non necessariamente. Tutti ci inquietiamo. Il problema si verifica quando la preoccupazione diventa ingovernabile, invadendo e asfissiando il campo della coscienza.

La parola “stress” ci sembra familiare, perché ormai è un'icona del mondo attuale. La maggior parte di noi pensa che sia un sinonimo di “preoccupazione”. Se sei preoccupato, allora sei stressato.

“Stress”, però, ha un senso più ampio. Significa anche cambiamento, una situazione che genera trasformazione. Non importa se è un cambiamento positivo o negativo. Entrambi sono stressanti.

Spiegato in modo semplice, lo stress è una reazione innata al cambiamento, a tutto ciò che genera instabilità. Lo stress è intimamente legato all'ansia, ma può trasformarsi in un'intensa angoscia, al punto da superare i meccanismi biologici e psichici di autoregolazione.

Uno dei primi ricercatori in questo settore è stato l'endocrinologo tedesco Hans Selye, che negli anni Trenta del secolo scorso ha indicato come l'organismo reagisca drasticamente di fronte a certe esperienze fonte di turbamento, sia organiche che psicologiche, definendole “stressanti”. Selye si riferiva in particolare all'eccesso di stress, che deve essere oggetto d'allarme.

Come hanno verificato Selye e altri ricercatori, i fattori stressanti sono abitudini, sintomi organici e idee che possono provocare “tracimazioni” emotive. Agiscono anche come fattori stressanti quelle situazioni che cerchiamo di dimenticare: una malattia, qualcosa che ci provoca vergogna o la possibilità di cadere nel vuoto se abbiamo paura dell'altezza. Forse uno dei principali agenti di stress è l'ansia di fronte all'indeterminatezza.

Non è una novità che ci esponiamo a livelli elevati di stress. Finché ciò accade in momenti brevi e non ci altera troppo, è ancora governabile, ma come hanno scoperto medici e psicologi, lo stress eccessivo e costante può influire molto sul nostro sistema cardiaco e immunologico. Può provocare problemi gastrici ed eccesso di peso. Influenza anche la memoria, favorendo i ricordi apprensivi.

Le cellule cerebrali (neuroni) comunicano tra loro mediante “messaggi chimici”, i neutrotrasmettitori. Quando la persona è esposta a livelli esagerati di stress, la comunicazione inizia a deteriorarsi. Quando vengono intaccati i “messaggeri”, soffriamo sintomi come insonnia, dolori generalizzati, depressione e angoscia.

È comune fuggire dalle pressioni cercando rifugio nell'evasione. La persona è particolarmente creativa quando si tratta di fuggire dalla realtà e dai sintomi che l'avvertono che qualcosa non va, ma questo genera un'ansia ancor maggiore.

Nella nostra cultura, che favorisce le distrazioni, non mancano realtà aggravanti.

Ogni giorno dobbiamo affrontare situazioni come la mancanza di sincronia esistenziale, quel relativismo che mette in discussione i nostri valori sul bene e la verità. Le persone stressate vanno verso l'abbattimento. Il Journal of Clinical Psychological Science avvertiva dopo uno studio delle conseguenze nocive del rimanere a “ruminare” gli eventi negativi, perché finiremo accecati da ciò che è andato male anziché cercare soluzioni ai problemi.

I ricercatori hanno anche affermato che certe situazioni stressanti, trattate in modo inadeguato, rendono impossibili le azioni necessarie a combattere le forme di pensare ripetitive, cariche di pessimismo, definite “catastrofiche”, e i comportamenti impulsivi che derivano da convinzioni erronee.

Attualmente nelle nostre culture si perde spesso di vista la dimensione spirituale della persona, sottolineando più l'ambito psicologico e organico. È indubbio che la realtà dello stress ha una dimensione psicologica importante, che spesso ha bisogno di un trattamento terapeutico adeguato, ma ciò non significa ignorare la dimensione spirituale della persona.

Le implicazioni dello stress vanno molto al di là delle sue conseguenze psichiche, e per questo è necessario tenere in considerazione il notevole impatto dell'eccesso di stress nella vita spirituale.

Ciò è stato già identificato nell'antichità cristiana, la cui spiritualità favoriva la pace basata sulla sicurezza dell'amore di Dio più che sulle evasioni e sull'autoinganno.

Essere afflitti non è un male?

Nelle beatitudini, il Signore Gesù va incontro a chi è abbattuto. Tra coloro che si erano riuniti per ascoltarlo su quella montagna della Galilea, abbondavano i sofferenti: poveri, affamati, timorosi, malati, disprezzati, perseguitati.

Sicuramente Gesù non era nelle condizioni di offrire loro beni materiali perché era povero. Non possedeva neanche una soluzione immediata per ciascuna delle loro angosce, ma annunciava loro “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt 5, 4).

Riflettendo su quella frase, il papa emerito Benedetto XVI si chiedeva se fosse un bene essere afflitti e se fosse desiderabile definire “beata” la desolazione.

Gesù stava insegnando con paradossi. Sul monte parlava a persone che avevano perso la speranza e che probabilmente già non confidavano più nell'amore e nella verità, situazione che abbatte e distrugge l'uomo da dentro. Il Santo Padre sottolineava anche che tra loro c'erano persone ansiose perché alla ricerca della verità. Altri erano afflitti per le loro imperfezioni, desiderando cambiare.

Gesù si offre a loro con la sua testimonianza di speranza e riconciliazione. Matteo menziona quell'invito: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Il Signore manifesta che Dio sta condividendo la nostra vita. Egli ci parla inviando il suo Figlio amato! “Dio non può soffrire, ma può compiacersi”, affermava San Bernardo.

San Paolo indicava come ideale il raggiungimento della pace interiore, in contrasto con la confusione e l'autoinganno, che favoriscono l'ansia. Per l'Apostolo, era chiaro che Dio desidera che le persone vivano in pace (cfr. 1 Cor 14, 33).

Come grande conoscitore dello spirito umano, San Paolo capiva bene le sue contraddizioni, motivo per il quale esorta i cristiani a lavorare per ottenere la pace dell'anima, che è in sintonia con la salvezza (cfr. Rm 15, 13).

Questa pace, basata sull'abnegazione, sulla virtù e sulla dedizione generosa, contiene la rinuncia alla discordia; in concreto, il rifiuto delle controversie inutili che offuscano il cuore e oscurano la verità (cf. 2 Tm. 2, 23). Al contrario, San Paolo favorisce l'ascolto, la compassione e la preghiera.

Gli antichi monaci dell'Egitto raccomandavano il confronto delle credenze e dei comportamenti opposti al Vangelo. Incentivavano la pazienza, che apre l'ampio orizzonte della speranza, educandoci alla visione dell'eternità, e insegnavano che la preghiera costituiva il cammino di grazia santificante per affrontare i vizi capitali, come la pigrizia, che provocavano angosce maggiori. Intesa generalmente come “sconforto”, la pigrizia suscitava gravissime difficoltà morali e spirituali, soprattutto la perdita della consapevolezza dell'amore di Dio.

Nel IV secolo, Sant'Antonio Anacoreta, padre el monachesimo egiziano, descrisse certi stati perturbati dall'eccesso di preoccupazioni.

Per il santo monaco, le apprensioni spirituali scatenavano disordini interiori e timori, pensieri confusi, abbattimento, sconforto, evasione dagli esercizi ascetici, afflizioni, attaccamenti disordinati, paura esagerata del dolore e della morte, instabilità di carattere, inquietudine di fronte
alla virtù e inclinazione al peccato.

Evagrio Pontico (345-399), teologo e mistico del monacato primitivo, avvertiva che la persona poteva far fronte a fattori di stress ma non le era possibile caricarsi per tutto il tempo di ricordi negativi, rancori, paure, colpe, ansie e frustrazioni.

Un simile stato di disperazione poteva anche trasformarsi in un vizio abituale, al punto da distruggere la volontà e far ammalare lo spirito. Evagrio faceva riferimento all'importanza della memoria, perché capiva che i ricordi nocivi potevano facilmente strapparci alla pace e “stancarci” delle cose di Dio.

Gli antichi maestri del deserto praticavano la presenza di Dio, la cosiddetta “meme Theos”, che genera serenità, speranza e pace.

I monaci recitavano anche la preghiera del Nome di Gesù: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, un metodo di preghiera che aveva, tra le altre finalità, quella di incentivare una preghiera continua e recuperare la consapevolezza dell'amore di Dio, insegnamento primordiale di Gesù Cristo.

Tornando al tramonto davanti all'oceano, forse il Signore Gesù non si raccoglieva nella tranquillità della solitudine, vicino al mare di Galilea, per pregare il Padre (cfr. Lc, 5, 16)?

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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