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Padre Charly, nelle periferie di Buenos Aires per incontrare Cristo

padre charly

© Quotidiano Meeting

Quotidiano Meeting - pubblicato il 29/08/14

La sua incredibile storia è raccontata nel libro "Preti dalla fine del mondo"

di Francesco Graffagnino

Lo potete vedere girare su un furgoncino, con i megafoni sul tetto, per le strade in terra battuta delle villas e fare un bollettino parlato d’informazione, una specie di giornale radio. «Me siento un portero», dice scherzando.

Infatti, la giornata di ieri l’ha passata muovendosi da una parte all’altra, come un portiere di calcio, per cercare di incontrare tutti i giornalisti che desideravano intervistarlo appena lo hanno visto arrivare al Meeting. Ha trentatrè anni ma lo sguardo è quello di un ragazzo. Padre Carlos Olivero, meglio noto come padre Charly, arriva direttamente dalle periferie, le villas miserias di Buenos Aires. E in quei luoghi «non si può essere prete se non si preme a fondo l’acceleratore », come dice lui. La sua storia, insieme a quella di molti altri preti è stata raccontata dalla giornalista Silvina Premat che ieri sera all’eni Caffè Letterario ha presentato il suo libro Preti dalla fine del mondo.

«Ho sempre pensato che avrei fatto il medico di frontiera, avevo un’inclinazione alla totalità, a fare le cose fino alla fine», inizia a raccontare padre Charly. Dallo studio della medicina si aspettava proprio questo. La sua storia inizia con un viaggio che l’ha portato da tutt’altra parte rispetto a quello che si aspettava. Il giorno della partenza per una vacanza, operano d’urgenza il suo padrino. «Io ero come un figlio per lui e ho deciso di rimanere». I suoi amici partono, ma a lui arriva dal fratello della sua fidanzata una proposta completamente diversa: un invito ad andare in una missione. «Da bambino ero molto religioso, ma poi mi ero allontanato dalla fede», continua padre Charly. L’arrivo in quella missione diventa l’occasione, invece, per riscoprirla: incontra un gruppo di alcolizzati, musicisti che avevano perso tutto naufragando nell’alcool.

«In quel periodo, avevo circa vent’anni, anch’io bevevo molto. Cinque giorni a settimana ero al bar con gli amici». L’incontro con quei disperati gli riaccende il desiderio di pregare e, non appena torna a casa, ancora commosso dall’esperienza in quella missione, si ritrova nella chiesa dove andava a messa da bambino. «In quel momento, quando sono entrato, ho avuto una certezza: sentito dentro di me un senso di felicità compiuta che in qualche modo mi ha fatto capire che ero già sacerdote, che quella era la mia identità e che tutte le idee di fare il medico di frontiera erano una mia invenzione per non guardarmi fino in fondo».

L’intuizione gli verrà confermata dall’incontro con la gente che vive per strada, Quando decide di entrare in seminario ha 21 anni. Ma la realtà che incontra è molto più quieta, come la definisce lui, e a metà del suo percorso vive una profonda crisi. «O incontravo qualcosa che fosse all’altezza di quell’esperienza inziale o avrei dovuto lasciare». Dal seminario decisero di mandarlo a vivere nelle villas, sapendo che quello era il suo desiderio. Era il 2002 quando incontrò padre Josè Maria di Paola, detto “Pepe”, che gli chiese di accompagnare i ragazzi tossicodipendenti che facevano un percorso di recupero.

Inizia un nuovo capitolo della sua vita. «Io e il mio gruppo di amici avevamo conosciuto la realtà della droga. Non ne ero dipendente, ma l’avevo provata. Ma è stata solo l’irruzione di Dio nella mia vita a cambiarmi nel profondo». Questa particolare empatia verso chi è vittima della droga rimane, e da qui nasce l’Hogar de Cristo, un’iniziativa per recuperare i ragazzi delle villas tossicodipendenti. «Bisogna accompagnare i ragazzi e lavorare sulla speranza. Testimoniare qualcosa che riguardi il senso della vita e che dia loro un motivo per alzarsi al mattino», spiega Charly. C’è un episodio che l’ha coinvolto: la storia di Nacho. Nacho era un giovane che era stato abbandonato dalla sua compagna e dai figli perché si drogava e li picchiava. Padre Charly lo accompagna in un centro terapeutico. «Ma il momento più importante fu quando venne a confessarsi dopo essere tornato dal centro. Mi disse che praticava la religione Umbanda». In questa religione si sacrificano animali agli spiriti per chiedere che facciano del male ad altre persone. «C’è qualcosa di molto oscuro in questa pratica – continua Charly – ma quando Nacho venne da me, fu un’esperienza molto particolare, come se si aprisse una finestra ed entrasse luce in un luogo che prima era chiuso e oscuro. Fu quasi un’esperienza fisica».

Da quel momento Nacho riprende in mano la sua vita e, aiutato dai preti, trova un altro lavoro ed è riaccolto dalla sua famiglia. Per Charly «lui e gli altri sono come figli. Vivere lì è lindo, bello». I poveri, i tossicodipendenti, i delinquenti diventano un luogo teologico. Questi preti non vivono nelle villas miserias per un buonismo volontario o per un ideale etico socialista. «Non è questo il motivo – conclude padre Charly – io, in loro, vedo la carne di Cristo».

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