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4 cose che è meglio non dire a chi sta soffrendo

Hands of a sad woman in front of a window – it

Vladimir Volodin / Shutterstock

Aleteia - pubblicato il 01/07/14

L'istinto di voler aiutare è probabilmente sbagliato

di Brian Brown

Se sei come la maggior parte della gente, sarà difficile sapere cosa devi fare quando un tuo amico sta soffrendo. E per il tuo amico, probabilmente, sarà difficile sapere cosa farsene della sofferenza.

Questa sofferenza può derivare dalla morte di un parente o di un amico, dalla perdita del lavoro, dalla fine di una relazione o anche solo dalla sensazione che l’universo ti abbia dato un calcio in faccia e non abbia tolto il piede già da un bel po’ di tempo.

Spesso fai ricorso ai cliché di sempre e li ripeti per te, cercando di animarti o di convincere l’universo a lasciarti in pace. E li ripeti agli amici, tentando di fare lo stesso per loro. A volte i cliché servono a pensare, ma spesso sono solo dispositivi per fuggire da ciò che sta accadendo.

Ho appena finito di leggere un libro, “Invitation to Tears” (“Invito alle lacrime”), di Jonalyn Fincher e Aubrie Hills. Jonalyn e Aubrie offrono un approccio gradevole e diverso al dolore. Suggeriscono che imparare a sperimentarlo è prezioso: è un valore che la nostra cultura ha messo da parte e che abbiamo smesso di apprendere.

Far fronte alla sofferenza e aiutare un amico a fare lo stesso, secondo gli autori, implica evitare di dire cose come queste:

Luoghi comuni

“Almeno non sta soffrendo più”, “Ora è con Gesù”, “Tutto succede per un motivo”…

“NON è per questo che sto piangendo!”, ha replicato Jonalyn dopo la morte della suocera. Questi luoghi comuni possono essere particolarmente negativi all’interno della Chiesa, dove le persone portano le proprie sofferenze più profonde in cerca di speranza.

Nelle mura di consolazione della Chiesa, ci siamo purtroppo spogliati del linguaggio della perdita. Quello di cui Davide e i salmisti parlavano perfettamente, noi abbiamo smesso di impararlo. Non sappiamo come sederci accanto a chi soffre senza cercare di “sistemare” le cose in modo stupido.

Gli autori suggeriscono di reimparare il linguaggio della sofferenza e includono intere liste di poesie, libri e film che ruotano intorno alla tristezza e al lutto, cose che ci possono aiutare a imparare di nuovo quel linguaggio.

“Considera tutto come un tipo di allegria”

I cristiani ne sentono parlare molto. Sicuramente, alcune persone hanno semplicemente bisogno di smettere di reclamare e di ricordarsi che facciamo parte della storia di Dio, e non il contrario. Di fronte al dolore reale, tuttavia, questo può diventare un meccanismo per sfuggire alla colpa, soprattutto quando diciamo questo per noi stessi.

La vita è dura ed è necessario affrontare questo fatto per far fronte al dolore. Gli autori suggeriscono che cedere al dolore è in qualche modo salutare e importante.

Essere in lutto significa fare meno cose a livello esteriore, per aver tempo di sfogarsi, scrivere, fare lunghe passeggiate, piangere, guardare il cielo e pensare. Si tratta, in sostanza, di adottare la pratica non occidentale di fare di meno per imparare di più. Non è assurdo che non abbiamo tempo per questo, nelle nostre società frenetiche. Il lutto non è sicuro né efficiente per la nostra mentalità concentrata sul fare, ma ci può rendere più umani.

“Sarà il momento di dare una svolta alla propria vita?”

A volte qualcuno ha bisogno di sentirsi dire questo, ma gli autori del libro contrastano questa possibilità con la tradizione ebraica della shivà, in cui tutta la comunità si unisce intorno alla persona che soffre per guidarla nella sua sofferenza. La comunità agisce come un capitano, tracciando un percorso per il lutto. Gli autori suggeriscono che alle persone che cercano consolazione nel dolore serve qualcuno che le orienti basandosi sulla propria esperienza di sofferenza anziché suggerire proprio in quel momento che la persona “dia una svolta alla propria vita”.

Osservano anche, facendo eco a T.S. Eliot, che la memoria fa parte del dolore, ma anche del movimento per superarlo. Quando i tuoi amici ti sono vicini nella sofferenza, li vedi affrontare accanto a te una prova. Questo costruisce la memoria che può aiutare in futuro.

“Dio ha qualcosa da insegnarti”

È chiaro che Dio ha sempre qualcosa da insegnarci, ma la sofferenza è più complicata.

Nella Sacra Scrittura vediamo che la sofferenza non affligge solo il colpevole, ma anche l’innocente. L’agnello sacrificale dimostra ritualmente, tutto l’anno, che anche gli innocenti soffrono per i peccati dei colpevoli. Il dolore non è sempre il risultato di uno scontento di Dio.

Jonalyn e Aubrie offrono un approccio che in qualche modo incorpora il dolore a ciò che sei. Nel mondo reale, che è un mondo caduto, la vita è a volte terribile e non sembra esserci ragione umana perché sia così. È tipico degli occidentali cercare di ignorare questo e voler spiegare tutto in qualche modo. Gli autori suggeriscono comunque che sperimentando la sofferenza, se ci impegniamo a reimpararla come comunità, questa non solo è sopportabile, ma è anche una parte fondamentale e bella di ciò che ci rende umani.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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