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Deserto, strada della salvezza

Desert Arizona – it

Moyan Brenn / Flickr / CC

Desert scenery situated between Hopi reservation and Tuba city (monument valley) in Arizona

Dimensione Speranza - pubblicato il 25/03/14

Il deserto è la prima scelta ambientale di Dio per incontrarsi con l’uomo, rivelarsi a lui, sancire con lui il patto dell'alleanza

di Anna Maria Canopi, osb

Il tema del deserto è vasto quanto la storia sacra. Non vi sono parole per esaurirlo. È una realtà che si lascia conoscere solo sperimentalmente. Chi poi la vive, sa di non avere parole per dirne il sapore e la misura.

Il deserto è la prima scelta ambientale di Dio per incontrarsi con l’uomo, rivelarsi a lui, sancire con lui il patto dell’alleanza. Ma non è tanto un luogo fisico quanto una realtà, una dimensione interiore, dello spirito. E’ la strada della salvezza. Chi cerca Dio deve passare di lì.

A questo, appunto, ci invita la liturgia del tempo quaresimale, presentandosi come un itinerario interiore di ritorno a Dio e di ricerca del suo volto, nella purità del cuore.

1. La Quaresima come itinerario nel deserto

La colletta del mercoledì delle ceneri così si esprime:

Concedi, Signore, al popolo cristiano, di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male.

L’orazione per l’imposizione delle ceneri torna a chiedere la benedizione divina per poter «giungere completamente rinnovati, attraverso l’itinerario spirituale della quaresima, a celebrare la Pasqua» del Signore.

Anche nella preghiera dopo la Comunione si afferma che il sacramento del corpo e del sangue del Signore è ricevuto come viatico, come sostentamento «nel cammino quaresimale».

Così nelle messe dei giorni successivi ricorre insistente l’invocazione al Padre perché si degni di accompagnare con il suo sguardo di bontà «i primi passi del nostro cammino penitenziale», in vista di «profondo rinnovamento dello spirito» (cfr colletta del venerdì dopo le ceneri).

Ma ancor più espressamente la grande liturgia della prima domenica di Quaresima proclama quale «segno sacramentale della nostra conversione» (colletta) il segno biblico dei quaranta giorni nel deserto, «tempo favorevole per la salvezza» (sulle offerte), santificato dalla penitenza di Cristo stesso (cfr prefazio I della Quaresima: «tempo di rinnovamento spirituale»).

E poiché la condizione del deserto è la fame e la sete di Dio, ecco che cosa ci fa chiedere la preghiera dopo la Comunione:

Il pane del cielo che ci hai dato, Signore, alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad avere Fame di Cristo, pane vivo e vero, e a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca.

Giustamente un monaco dei tempi passati scriveva: «Il deserto è per coloro che hanno sete di Dio» (Bonifacio di Fulda). Per chi ha sete di Dio unica possibilità di dissetarsi è di bere alla Roccia che è Cristo stesso – la Roccia trovata nel deserto (cfr Es17,6; Num 20,8; Sal 17,3; 1 Cor 10,4). Bere al Cristo significa attingere alla sua grazia, abbeverarsi al suo Spirito (cfr 1 Cor 10,4), conoscere più profondamente il suo mistero, crescere in tale conoscenza fino alla pienezza della comunione vitale con lui e – tramite lui – con il Padre (cfr colletta della prima domenica di quaresima).

2. Il deserto ha il volto del Cristo

Il discorso vero sul deserto quale dimensione spirituale del cristiano parte, quindi, necessariamente da questa esigenza, da questa chiamata a vivere più in profondità il mistero di Gesù Cristo, parola vivente del Padre. Se infatti il deserto è la strada scelta da Dio per la liberazione del suo popolo, sappiamo anche che Gesù Cristo si è definito strada unica per incontrare il Padre; e inoltre si è chiamato il vero pane del deserto.

Ecco allora la meraviglia: per il cristiano il deserto ha il volto del Cristo, ha il sapore del Cristo. La solitudine è piena del Cristo che in essa si è affondato.

Tutto questo era vero – sia pure adombrato – già anche prima, poiché, fin dal giorno in cui Dio trasse dall’Egitto la discendenza di Abramo, il Salvatore – in figura di Mosè, dei giudici, dei re e dei profeti, in figura di manna, di miele di roccia, di acqua viva – era con il suo popolo.

Ma perché il cammino della salvezza passa proprio attraverso il deserto?

«Il deserto è monoteista» – diceva un profondo conoscitore della Bibbia (J. Daniélou). Il deserto è lo spazio della libertà per Dio. «È il noviziato che il Signore ha scelto per formavi i suoi profeti e apostoli» (card. Leger).

È ciò che san Bendetto nella sua Regola definisce la scuola, il discepolato del servizio divino, la santa milizia di Cristo.

È dunque lì, nel deserto, dove l’uomo si trova disancorato da tutti gli appoggi umani, dove l’occhio non ha altro da vedere che lo spazio immenso e vuoto in ogni direzione, dove ogni suono è spento, dove il tempo sembra non avere più ritmi di durata, dove ogni attesa sembra divenire assurda, dove l’unico sguardo che si può incontrare è la pupilla dilatata del cielo, è lì che il Signore conduce colui che gli è caro e gli si rivela come l’Unico: «Ascolta, Israele… Io sono il Signore tuo Dio… Non avere altri dèi di Fronte a me» (Dt 5,6).

L’idolatria è il prodotto della molteplicità e della divisione. Il suo ambito è prevalentemente il centro abitato dove s’impone, presuntuosa di essere autosufficiente, l’opera dell’uomo.

Il deserto è invece una realtà nuda, di inefficienza, una realtà unificata ed essenziale. In esso, perciò, l’uomo si configura con i caratteri dell’unità e dell’essenzialità, a immagine del suo Dio, unica realtà che nel deserto egli può contemplare.

Quando i primi monaci penetrarono nel deserto, vollero esprimere con il loro esodo il desiderio di essere realmente liberi da ogni cosa della terra e, per ottenere ciò, si misero in una situazione tale da non aver più nulla da poter prendere, da essere in uno spogliamento concreto, di fatto, in cui null’altro poter sperare al di fuori di Dio (E. Schillebeeckx).

3. Il deserto prova della fede

Il deserto è dunque il luogo dove la fede è messa alla prova e dove l’autonomia significa impotenza e morte. È sempre attuale anche per noi l’ammonimento di Mosè al popolo d’Israele:

Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te (Dt 8, 2-5).

Prova di fede e di obbedienza.

Ecco perché Gesù – nel quale si identifica il vero Israele, l’Eletto, il Servo di Dio – assume radicalmente l’esperienza del deserto e la pone proprio all’inizio della sua vita pubblica, al centro della sua missione redentrice. Come già era stato per Israele, il deserto è il noviziato di Gesù, servo di Dio. Là egli affronta la prova della fede e dell’obbedienza per tutti noi.

Egli intraprende un itinerario, si potrebbe dire, catecumenale per ricevere il battesimo della croce. «Tiene duro» nella tentazione che lo aggredisce con la fame e con la sete, non solo della carne ma soprattutto del cuore e dello spirito. I suoi «no» al tentatore sono un «sì» alla volontà del Padre che lo condurrà dal deserto di Giudea fino al deserto spaventoso della croce. Sospeso come sull’abisso del mondo che lo rifiuta, Cristo si lascerà cadere fino nelle profondità della morte – fino agli inferi – per toccare il fondo della debolezza e della solitudine umana e di là riconsegnare l’umanità nelle mani del Padre. L’abissale deserto della croce diviene cosi il grembo dell’Amore infinito in cui l’uomo nasce figlio di Dio.

Il vero senso del deserto è, dunque, proprio questo che gli è stato dato da Gesù Cristo. Non è un ritirarsi da solo, un separarsi dagli uomini, ma un caricarsi dell’uomo per portarlo a morire e a risorgere. Un viaggio di fede e di obbedienza per costituire un popolo credente nell’unico vero Dio.

In questo mondo che Dio sembra avere abbandonato, la sola figura visibile è quella del male. La sola soluzione ragionevole è proposta dal tentatore, ed è questa: profittare del proprio potere, imporsi agli uomini, prendere possesso del mondo.
Il Cristo è passato attraverso questa tentazione e l’ha superata per fondare in noi la forza della fede. Allora, grazie a lui, noi sappiamo che il Dio che tace è per noi il vero Dio presente, e che il deserto è il cammino che va dal mondo fino a lui.
La nudità del deserto permette di vedere, di riconoscere il vero volto di Dio (L. Guillet).

4.Il deserto “tempio di Dio”

Il Dio che tace, il Dio invisibile è il Dio vivo e presente che si disvela allo sguardo puro della fede.

Già Eucherio di Lione scriveva: «Il deserto è il tempio di Dio sconfinato, perché Dio abita la solitudine, ed è là che egli diviene visibile per i suoi santi».

Dice un proverbio arabo: «Là nel deserto non c’è che un rumore: il gemito del vento. È il deserto che piange perché vorrebbe essere prateria». È l’implorazione della terra riarsa – dell’anima assetata – che attende la rugiada dal cielo.

Bisogna che l’esperienza della povertà, della spogliazione, dell’impotenza arrivi all’estrema, affinché l’uomo sia ridotto alla verità essenziale del suo essere.

Il vero deserto è quello che investe come un vento bruciante e tempestoso i nostri sensi, il nostro cuore, la nostra anima; è quello che strappa via la maschera che ci copre il viso e ci mette a viso scoperto – senza difesa alcuna – davanti a Dio, costringendoci a cadere nelle sue mani.

Ma a questo punto, ecco la salvezza. Si avvera sempre quanto avvenne per il popolo d’Israele:

Egli lo trovò in terra deserta,
in una landa di ululati solitari.
Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò,
lo custodì come pupilla del suo occhio.
Come un’aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali;
il Signore lo guidò da solo,
non c’era con lui alcun dio straniero.
Lo fece montare sulle alture della terra
e lo nutrì con i prodotti della campagna;
gli Fece succhiare miele dalla rupe
e olio dai ciottoli della roccia (Dt 32, 10-13).

5. All’ombra della sua mano

«Egli spiegò le ali e lo prese / lo sollevò sulle sue ali…». L’immagine delle ali di Dio è tra le più belle e delicate di tutte le immagini bibliche.

L’esperienza aspra e paurosa della solitudine si trasforma nell’esperienza della più tenera e rassicurante presenza di Dio Padre. In mezzo alle sabbie roventi, il ristoro all’ombra dell’ala paterna teneramente distesa. «Umbraculum tuum, Deus» dice anche il salmo 120 (121): Il Signore è l’ombra che ti copre.

C’è un’espressione ormai classica nella letteratura monastica – accolta dallo stesso magistero della Chiesa – che esprime tutto questo con stupenda efficacia e semplicità. È l’espressione: in umbratili vita: vita in ombra, nascosta, si traduce comunemente. Ma significa proprio vita all’ombra della mano (o delle ali) di Dio.

Ebbene, la Quaresima è il tempo in cui la Chiesa chiama tutti i cristiani ad inoltrarsi più internamente nel deserto per raccogliersi sotto quest’ombra, per sperimentare la più intensa dolcezza della presenza di Dio.

La liturgia ce lo conferma utilizzando largamente, proprio nella messa della prima domenica di Quaresima, il salmo 90 (91), salmo citato nella pericope evangelica che presenta Gesù nel deserto. Dobbiamo ascoltarlo, pregarlo, questo salmo, nel cuore di Cristo stesso.Per il canto di ingresso sono utilizzati i versetti: Invocabit me, et ego exaudiam eum; eripiam eum et glorifìcabo eum; longitudine dierum adimplebo eum.

Là, nel deserto, «mi invocherà, e io gli darò risposta; – presso di lui sarò nella sventura, – lo salverò e lo renderò glorioso. – Lo sazierò di lunghi giorni» (15-16). La melodia è solenne e pacata: esprime la promess del Padre al suo Figlio nella prova. Poi, quasi eco gioiosa e rassicurante, i versetti salmodiati e la ripresa del brano musicale:

Tu che abiti al riparo dell’Altissimo
e dimori all’ombra dell’Onnipotente,
dì al Signore:
mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio, in cui confido (Sal 90, 1-2).

Non più le frecce del tentatore, i terrori della notte, lo sterminio meridiano, ma il riposo all’ombra delle ali divine.

Ed ecco, subito il deserto si popola di angeli: Angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis: «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno, perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (11-12).

Con diverse melodie gregoriane, questi e altri versetti del salmo 90 sono ripetuti più volte dopo le letture, all’offertorio e alla Comunione.

6. Il deserto condizione del cristiano

Il deserto, campo aperto per la lotta, grazie alla vittoria riportata dal Cristo, è così diventato il tempio della gloria di Dio.

Come luogo di prova e come dimora con Dio, il deserto rimane l’ambito proprio della Chiesa sino alla fine della storia. Essa è la sposa continuamente ricondotta alla giovinezza del suo amore, al tempo felice del fidanzamento:

Ecco, la attirerò a me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore…
Là canterà come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto (Os 2, 16-17).

Essa è la Donna sempre perseguitata dal «serpente antico», presentata nel libro dell’Apocalisse:

Furono date alla Donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per. lei per esservi nutrita un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente (Ap 12,14).

Il deserto è, dunque, la condizione del cristiano. La nostra condizione. Vi siamo entrati con il Cristo; non ne usciremo che con lui.

Vi entriamo ancor più di anno in anno con la grazia sacramentale della Quaresima, spazio di tempo consacrato alla conversione del cuore. Occorre che vi entriamo davvero disposti a lasciarci devastare le nostre umane coltivazioni per diventare terreno vergine, assetato solo di Dio.

C’è una verginità che si riceve proprio mediante il battesimo del deserto. Dalla verginità del deserto, del silenzio, scaturisce la preghiera pura, la contemplazione. Solo il noviziato del deserto porta alla professione solenne della Pasqua. Partiamo senza l’alleluia sulle labbra, ma con l’alleluia in germe dentro il cuore. È la consegna cui bisogna restare fedeli, sapendo che nel cuore del deserto c’è un pozzo profondo, un’acqua viva che il mattino di Pasqua zampillerà irrompente, sprigionando il canto gioioso dell’alleluia della Risurrezione. E sarà un nuovo mattino per tutto il mondo.

«La lode di Dio, che introduce all’Amore – diceva san Gregorio di Nazianzo – è figlia del silenzio e della solitudine». L’esultanza pasquale matura dentro le sabbie roventi del deserto e le trasforma in giardino. Il gemito è mutato in grido di gioia. Sintonizzati con i veri cercatori di Dio di tutti i tempi, Facciamo nostra la preghiera di un monaco del XII secolo:

Signore, tu mi hai sedotto e portato nel deserto,
ora la mia anima desidera stare di fronte a te solo:
questa è la sete del mio cuore!
Ti prego, Misericordioso: imponi pace e silenzio
attorno e dentro di me.
Dammi, per consolare la mia solitudine,
e frequenti intrattenimenti con te.
Nella misura in cui tu sarai con me, io non sarò solo;
conducimi fino al punto più lontano del deserto,
là dove l’anima santa si vede affondata interamente
nel fuoco dello Spirito Santo
e si accende come un serafino ardente.
Nascondimi nel segreto del tuo volto. Amen!
(Guglielmo di S. Thierry,
Medit. IV)


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