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Violenza sulle donne nel matrimonio: la Chiesa, denunciateli!

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Juan Carlos Valderrama - pubblicato il 23/04/13

La vittima di abusi non è mai moralmente obbligata a vivere con il suo aggressore

Il matrimonio è un impedimento all'uguaglianza della donna? La Chiesa chiede alle donne maltrattate di assumere la propria condizione di vittime senza possibilità di compensazione penale? La donna è costretta a convivere con il suo aggressore? Bastano le misure giudiziarie per ripristinarla nella sua dignità?

1. Il magistero della Chiesa è assolutamente netto e chiaro nel suo rifiuto di qualsiasi forma di violenza e discriminazione ai danni della donna, come lo è ovviamente negli altri casi di attentato contro la dignità della persona in generale. Il rispetto per la vita, per la sua integrità fisica e morale, per la sua reputazione, la sua libertà e i suoi beni, inseriti nel precetto divino di amare il prossimo come se stessi, ha da questo punto di vista una portata universale e permanente, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1229-1233; 2258-2330; 2477-2487).
 Ciò che rappresenta il carattere distintivo della violenza contro la donna nel contesto delle sue relazioni affettive e, più ancora, di quelle domestiche, ad ogni modo, non è solo la dignità che le spetta per il semplice fatto di essere persona, ma il modo specifico in cui lo è, così come la natura della relazione a cui l'uomo e lei, in base alla differenza in cui si esprime la loro pari dignità, sono essenzialmente chiamati.

2. La sempre più chiara consapevolezza da parte della donna della propria dignità, per la quale reclama la piena uguaglianza di fatto e di diritto con l'uomo, così come il riconoscimento del  suo ruolo all'interno della famiglia umana sia nella vita pubblica che in quella privata, rappresenta uno dei tratti distintivi della sensibilità del nostro tempo alla quale l'antropologia cristiana – come ricorda insistentemente il magistero della Chiesa – può ancora fornire un valido contributo.

3. La sorte della donna è quella dell'umanità intera. Tutti devono sentirsi solidali nella sua difesa. Il suo apporto allo sviluppo umano possiede un valore insostituibile che tutta la società, a cominciare dai poteri pubblici, ha il dovere di riconoscere, promuovere e preservare con misure efficaci. Mary Ann Glendon, come rappresentante della delegazione della Santa Sede alla IV Conferenza Mondiale sulla Donna celebrata a Pechino il 5 settembre 1995, lo ha sottolineato in modo molto energico, facendosi eco delle parole di Giovanni Paolo II nella sua Lettera alle donne del 29 giugno precedente. “La storica oppressione delle donne – affermava la professoressa Glendon – ha privato la specie umana di innumerevoli risorse. Il riconoscimento dell'uguaglianza in dignità e nei diritti fondamentali delle donne e degli uomini e la garanzia per tutte le donne dell'accesso al pieno esercizio di questi diritti avranno conseguenze di ampia portata e apriranno enormi riserve di intelligenza ed energia, tanto necessarie in un mondo che reclama pace e giustizia”.

4. I poteri pubblici hanno una particolare responsabilità nella promozione di una vera politica sociale volta a prevenire e a intervenire direttamente sulle cause della violenza fisica, sessuale, psicologica o morale esercitata sulla donna, a volte con pretesti etnici, culturali, politici o economici che non risultano in alcun modo tollerabili. Pratiche particolarmente disumane come la mutilazione genitale, la sterilizzazione forzata, la prostituzione – quanto più drammatica nei casi del traffico infantile –, i matrimoni forzati quando, vittime di stupro, le donne ricevono la nuova pena di vedersi legate al proprio aggressore o il rifiuto delle comunità alle quali appartengono richiedono che tutte le Nazioni si impegnino unanimemente a eliminarle mediante l'istituzione di misure concrete volte legalmente alla loro proibizione e alla promozione di un'educazione conforme alla dignità della donna come paritaria all'uomo.

5. Non bisogna ad ogni modo attribuire solo alla mancanza di sviluppo la comparsa di situazioni di questo tipo, evidentemente ingiuste. Anche nelle nostre società, nelle quali prevalgono i valori del possesso e del consumo, la donna è esposta a una cultura che tende a trasformarla in un oggetto da usare, che – anche con proclami a favore della sua uguaglianza – sminuisce e si mostra incapace di riconoscere il valore differenziale che solo lei è in grado di apportare allo sviluppo globale del suo contesto sociale.

6. Il suo ruolo insostituibile nella cura della famiglia non può essere visto come un ostacolo al pieno sviluppo dei diritti che le spettano come cittadina del tutto uguale agli altri, né essere usato come uno dei freni che hanno impedito la sua liberazione dalle forme di violenza delle quali è stata spesso oggetto. Chi la pensa in questo modo dimentica che se la donna è la prima vittima di questa violenza lo è anche il vincolo del matrimonio, la cui dignità viene indebolita quando, di fronte alla logica della comunione e della donazione reciproca, la relazione tra gli sposi si stabilisce sotto forma di un possesso spersonalizzante. La Chiesa non esorta in alcun modo la donna a diventare vittima del matrimonio quando lo è già stata in precedenza del suo aggressore, soprattutto se la sua vita e il bene dei figli sono oggettivamente in pericolo, come ricordano chiaramente, tra gli altri, il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1649, 2383) e il Codice di Diritto Canonico (1153, §1). La vittima, quindi, non è moralmente obbligata a vivere con il suo aggressore; la Chiesa non lo direbbe mai.



7. A un problema così complesso come i maltrattamenti non si può dare una risposta unilaterale. Le misure di polizia e i provvedimenti penali alle quali le donne devono ricorrere immediatamente devono essere sostenute da un processo più ampio di accompagnamento che serva sia a liberarle da questo male che a guarirle dalle ferite. Si deve garantire il rispetto della legge, l'assistenza giudiziaria urgente a queste donne e la riprovazione sociale dell'atto e dei suoi autori.

8. 

La via penale e di polizia, tuttavia, non basta. La riparazione integrale della vittima richiede un accompagnamento costante. Tra le proposte pastorali del Documento di Aparecida (2007) dei vescovi latinoamericani (CELAM) si precisano due elementi particolarmente importanti al riguardo: a) accompagnare e guidare le associazioni di donne che lottano per superare le situazioni di vulnerabilità e di esclusione, e b) promuovere un dialogo costruttivo e deideologizzato con le autorità pubbliche “per l'elaborazione di programmi, leggi e politiche pubbliche” orientate al pieno sviluppo della donna nella vita personale, sociale e familiare (cfr. n. 458).

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