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Meno figli? Colpa anche della crisi

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Aleteia - pubblicato il 11/04/13

Il calo delle nascite è una delle conseguenze più evidenti

La crisi economica porta con sé disagio, povertà, disperazione, ma anche l'acuirsi di un fenomeno che attanagliava l'Europa già da anni: il calo delle nascite, che l'ex banchiere Antonio Fazio definisce “una causa troppo spesso sottaciuta di questa recessione”. “Siamo incuranti del fatto che una tendenza della popolazione come quella in atto sembra condannarci nel giro di qualche generazione a una sorta di eutanasia sociale”, ha affermato (Avvenire, 10 aprile).

Per mantenere un figlio, del resto, “servono soldi, ma per guadagnare soldi bisogna avere un lavoro”. Così, in un’Europa in cui la recessione avanza e la disoccupazione colpisce soprattutto i più giovani, nascono sempre meno bambini, come sostiene uno studio pubblicato dall’Istituto Demografico di Vienna che evidenzia la stretta relazione tra l’inizio della crisi economica e il crollo delle nascite nell’UE.

Secondo i ricercatori austriaci, “a periodi di recessione seguono spesso uno o due anni di riduzione delle nascite”, e non sorprende, dunque, che i Paesi europei con la fertilità più bassa siano oggi quelli del Sud, come l'Italia, che risentono maggiormente della crisi. In Grecia, riferisce il quotidiano francese Le Figaro, nel 2011 il numero degli aborti è aumentato del 50%. Nei Paesi con maggiori difficoltà economiche, inoltre, l’età media della prima gravidanza si alza (Eunews, 16 gennaio).

Nel Vecchio Continente il tasso di crescita della popolazione è particolarmente basso (0,14% all’anno nel 2007), peraltro sostenuto dall’immigrazione. Questa tendenza negativa deriva dal basso tasso di fertilità femminile, che come ha ricordato Fazio in 24 dei 26 Stati europei non raggiunge l’equilibrio di 2 nati per donna. In Italia è di 1,4, e nel nostro Paese “da ogni donna nascono in media 0,7 donne. Se non ci saranno aumenti nei prossimi decenni per l’indice di fertilità, nel corso di due generazioni il numero di donne italiane – e quindi degli italiani – sarà dimezzato”.

Oggi nel mondo vivono 7 miliardi di individui. Secondo le ultime proiezioni della Divisione dell’ONU per la popolazione, relative al 2011, nel 2050 saremo 9,3 miliardi, nel 2100 10,1, concentrati soprattutto in Asia e Africa. Quanto all’Europa, i 510 milioni del 2000 salirebbero nel 2100 solo a 670 milioni, con un rallentamento che dipende dall’aumento dell’età media.

Nelle popolazioni invecchiate, osserva Fazio, la domanda di beni si sposta soprattutto verso i servizi di assistenza, a bassa crescita di produttività. Il basso livello di natalità deprime poi la propensione al risparmio, ma minor risparmio significa minori mezzi per gli investimenti. “Se non ci sono attese di sviluppo della popolazione, quindi di potenziali acquirenti, gli imprenditori non affrontano il rischio di nuovi investimenti. L’economia ristagna”. In questo contesto non certo roseo, è prioritaria la promozione di politiche sociali a favore delle famiglie, rinunciare alle quali “sarebbe un’autorete”.

La correlazione tra un aumento moderato della popolazione e quello dell’economia è un fenomeno spesso “oscurato”, ma è stato trattato anche da autorevoli riviste statunitensi come Forbes e Foreign Policy. Su quest’ultima, il demografo Phillip Longman ha sostenuto che il mondo oggi rischia la “sottopopolazione”, cioè l’inverso rispetto alla dimensione dominante finora: se infatti ci sono voluti 50.000 anni perché, circa 200 anni fa, la popolazione mondiale raggiungesse un miliardo di persone, nel solo XX secolo si è quadruplicata, “ma lo sviluppo economico l’ha sopravanzata” “e non c’è stata alcuna penuria di beni e servizi”, che anzi a livello pro capite fra il 1950 e il 2000 si sono in media triplicati, sconfiggendo così le teorie malthusiane (Avvenire, 10 aprile).

Nel club mondiale degli economisti crescono infatti gli studiosi, come il premio Nobel Gary Becker, favorevoli all'incremento demografico, “anche per evitare di concentrare il carico fiscale sui più giovani, costretti a pagare più tasse per finanziare i servizi destinati alla quota crescente di anziani”, nonché “per scongiurare la prospettiva di ritrovarsi pochi, più vecchi, più poveri”. Meno giovani vogliono infatti dire una minore spinta all'innovazione. In questo contesto, per Fazio è necessaria, oltre a politiche economiche adeguate, un'attenzione particolare all’istruzione e alla formazione delle nuove generazioni.

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