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L’islam è intrinsecamente violento?

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María Ángeles Corpas - Maria Di Lorenzo - pubblicato il 26/03/13

Il Corano incita alla guerra contro le altre religioni?

L'islam non è intrinsecamente violento. La violenza consiste nell'uso della forza per raggiungere un obiettivo e fa parte della realtà umana, senza che possa essere attribuita esclusivamente alla natura di una determinata civiltà o confessione religiosa. Un'altra questione è quali contenuti del messaggio coranico siano stati strumentalizzati per legittimare dei radicalismi. L'esistenza di distinte interpretazioni etiche, teologiche e giuridiche ha alimentato questa controversia, fino all'estremo di equiparare i due concetti: islam e violenza.


1. L'islam come messaggio rivelato al Profeta coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale e contribuisce a sviluppare una civiltà, dotata di tratti distintivi che condizionano i comportamenti individuali e collettivi.



Come pensiero religioso, propone un modo di conoscenza e spiegazione della realtà che costituisce in sé una filosofia. Una concezione dell'universo e della realtà umana che genera anche forme particolari di intendere la giustizia, l'ordine e la gestione del potere. Il suo codice morale dà alle relazioni umane una fisionomia propria, riflessa nei suoi cicli vitali, nelle abitudini alimentari o nel vestiario. L'islam è noto come la religione delle tre “d”: Dīn (credenza religiosa), dawla (buon governo o questioni di Stato) e dunyā (mondo). Un profilo propenso a trattare questioni mondane e spirituali, impostazione che dalla prospettiva occidentale ha in sé il germe di un'ideologia politica.

Il binomio islam-politica risulta complesso. Le sue fonti (Corano e hadit) non propongono una visione teocratica, anche se potere e religione appaiono indissolubilmente collegati nella Legge (Sharia). Ogni attività deve essere imbevuta di Dio, perché concepita come cammino verso di Lui. Le norme possiedono una forte carica morale e dimostrano l'adesione al Messaggio. La credenza e la comunità che questa genera si sono forgiate in un contesto geostorico che ha unito aspetti spirituali e temporali.


La prima comunità si è unita intorno all'inalterabilità del Messaggio rivelato. Dopo il suo esilio (egira), Maometto è diventato l'autorità religiosa e governativa, favorendo una struttura di potere unificatrice. I suoi successori, investiti della dignità di califfo (capo della comunità), dovettero dotarsi di un modello organizzativo proprio. Fin da molto presto, l'islam ha assimilato elementi costitutivi di un “buon governo”, nonché principi missionari e di autodifesa. Una comunità di fede (ŷamā'a) che formava una sola entità giuridico-religiosa (Umma), chiamata La casa dell'islam (Dār al-Islām).

Semplicità e adattabilità sono fattori decisivi nel successo di questa civiltà, che ha difeso principi dogmatici chiari e un monoteismo netto, assorbendo diversi elementi culturali negli spazi geografici che componevano il califfato. Questo profilo sopraggiunto di una comunità minacciata proponeva la risposta violenta come risorsa difensiva legittima a favore di un futuro pacifico e stabile.



2. I fenomeni di intolleranza, antichi e attuali, le conversioni forzose e l'esercizio della violenza in nome dell'islam o della sua purezza originaria possono essere considerati interpretazioni della Tradizione illegittime, abusive ed erronee.



Il ŷihād si è costituito come obbligo morale proselitista per estendere la chiamata (da'wa) e difendere l'islam. In genere il termine è stato tradotto come “guerra santa”. Di solito si precisa che il suo significato è piuttosto quello di “sforzo” per migliorare, impegno del credente di fronte alle minacce, interne o esterne, che si abbattono sulla comunità. Questa fedeltà ai principi si unisce alla dimensione missionaria che esige di “rimuovere” gli ostacoli all'espansione del Messaggio. L'uso legittimo della violenza era fortemente limitato da norme che facevano della forza una risorsa estrema e proporzionata: “Combattete per la causa di Dio contro coloro che vi combattono, ma non eccedete  (…) Combattete per Dio e sappiate che Dio ascolta tutto, sa tutto!” (Corano 2, 190 e 2, 244).

Oltre a respingere la coazione come metodo di proselitismo, è stato promosso uno status di protezione per i credenti di altre confessioni monoteistiche (ḏhimmi), sottoposti come minoranza a una diritto particolare nel contesto islamico.

3. Il ritorno alle radici dell'islam sorge come alternativa liberatrice di fronte alle ideologie occidentali contemporanee.



Il mondo contemporaneo può sintetizzarsi come un accelerato processo di globalizzazione, in cui spiccano il colonialismo e il suo rovescio neocolonialista come strumenti di egemonia delle potenze occidentali. In altri termini, la posizione strategica del mondo islamico è decaduta verso un ruolo subordinato. Ciò ha fatto sì che nell'era dell'imperialismo (1870-1914) e in modo singolare intorno alla due Guerre Mondiali (1914-1939) sorgessero movimenti e ideologie inclini alla decolonizzazione. Tra questi, il riformismo ha favorito la sollevazione contro un'autorità statale, illegittima perché “empia”. Separazione tra aspetto civile e religioso, importata dal secolarizzato mondo occidentale. Altri movimenti avevano un'ispirazione laica, liberale o socialista, come il nazionalismo panarabo dell'egiziano Nasser. Questi movimenti hanno avuto difficoltà a raggiungere un autentico sviluppo sociale ed economico.

Neanche negli anni Sessanta e Settanta è stata raggiunta una voce unificata per risolvere i conflitti del mondo arabo islamico, in particolare la questione palestinese. Questo insuccesso del nazionalismo laico può essere attribuito a problemi comuni al terzo mondo durante la Guerra Fredda. Allo stesso modo, hanno preso forza altre interpretazioni che segnalavano come colpevole della sua decadenza non solo l'Occidente e la sua imposizione di regimi dipendenti, ma anche il carattere esogeno, estraneo di queste ideologie. La soluzione doveva quindi essere ricercata nell'unica fonte legittima e propria, la restaurazione dell'islam nella sua purezza originale. Questo sarebbe il germe di diversi movimenti sociali e politici in genere accomunati sotto l'etichetta “islamismo”.

Va citata la Rivoluzione iraniana del 1979, guidata dal clero sciita dell'ayatollah Khomeini e condannata per il rischio di esportazione del radicalismo, anche se la sua autorità nel diffondere questo panislamismo è stata messa in discussione in ampi strati del mondo musulmano. Esempio significativo dello scontro con le libertà democratiche è stata la sua condanna (fatwa) contro lo scrittore indo-britannico Salman Rushdie nel 1989.

L'Egitto è stato il focolaio più importante nella creazione di questo pensiero politico-religioso musulmano. Il movimento dei Fratelli Musulmani, fondato nel 1928 da Hasan al-Banna e da ideologi come Rashid Rida, desiderava islamizzare la vita pubblica. L'ideale della vita del Profeta a Medina era proposto come modello di fronte alla contaminazione di idee e interessi stranieri, il cui rifiuto era giustificato. L'attivismo violento sorto intorno a questo è stato fortemente represso fino alla Primavera Araba del 2011.

Questi discorsi tracciati partendo dalle fonti iraniana, egiziana e altre come il wahabismo saudita hanno attualizzato il dibattito sull'islam e sulla violenza legittima, impostazioni fortemente trasformate dall'impatto degli attentati dell'11 settembre. Il terrorismo associato a movimenti confessionali islamici esisteva in precedenza, anche se con un'eco localizzata; ad esempio, nell'assassinio del Presidente Sadat dopo la firma della pace con Israele (1981). La sua mondializzazione attraverso le affiliazioni di al-Qaeda, ad ogni modo, lo ha trasformato in una questione fondamentale dell'agenda internazionale del XXI secolo.

4. Il dialogo interreligioso, in particolare quello islamo-cristiano, esige reciprocità, una percezione reciproca realista e la rinuncia a pregiudizi storicamente radicati.



Da un punto di vista cristiano, in particolare cattolico, bisogna valorizzare la costruzione di un dialogo interreligioso che superi le barriere dell'ignoranza e del pregiudizio, spazio di rispetto e di riconoscimento della differenza, strumento utile per la convivenza e la pace, ponte di comunicazione incompatibile con una concezione negativa dell'altro come soggetto che manca di ogni verità o naturalmente incline alla violenza.

Il dialogo ha mostrato la razionalità e il pacifismo del fatto religioso di fronte a manipolazioni che cercano di legittimare la violenza. Il Concilio Vaticano II ha mostrato il suo sincero rispetto per ciò che c'è di vero e santo, scintilla della Verità in altre religioni. Guardava con apprezzamento il monoteismo musulmano, esortando a dimenticare i dissensi e le inimicizie del passato a favore di una comprensione reciproca e della difesa della giustizia, della pace e della libertà. Giovanni Paolo II ha sviluppato abbondantemente questo principio, gettando le basi dell'avvicinamento ai musulmani di buona volontà, esigendo un impegno di rispetto reciproco nella libertà religiosa e di rifiuto dell'estremismo.



Le reazioni avverse al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006 hanno mostrato le difficoltà di questo dialogo istituzionale, soprattutto per la sensibilità che risveglia il disaccordo storico tra le due religioni, nonché per la difficoltà di inviare un messaggio chiaro di rifiuto della violenza come proselitismo o legittimazione del potere, senza che implichi disprezzo per tutto ciò che è islamico. Al contrario, oggi più che mai diventa necessaria un'apertura permanente al dialogo, anche davanti alla mancanza di reciprocità o ad atteggiamenti fondamentalisti. La giustificazione di atti violenti illegittimi deve essere categoricamente rifiutata per motivazioni etiche e legali. Nessuna ideologia laica o religiosa può servire da appoggio a una lesione dei diritti umani. Risulta esecrabile che la violenza si basi sul credo religioso, cosa contraria al fatto religioso come fenomeno naturale e benefico per l'uomo. Nega la sua razionalità, fomenta la paura e lo trasforma in creatore di servi e non in forza liberatrice.

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