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Perché i preti non si possono sposare?

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Mirko Testa - pubblicato il 19/09/12

Perché esiste questa tradizione all'interno della Chiesa?

Il celibato è intimamente connesso con l’essenza stessa del sacerdozio come partecipazione alla vita di Cristo, alla sua identità e missione. Al giorno d’oggi è una norma disciplinare – e non un dogma di fede – in uso nella Chiesa di rito latino, fonte di doni spirituali incommensurabili, come testimoniano le vite di tanti santi.

1. Sin dalla Chiesa dei primi secoli il celibato è stato accolto, sulla scia dell’esempio degli apostoli, non solamente come una disciplina, ma innanzitutto come un dono carismatico.

Al giorno d’oggi i ministri ordinati della Chiesa cattolica di rito latino, ad eccezione dei diaconi permanenti, devono essere celibi. Questa norma disciplinare – suscettibile quindi di modifiche nel senso di permettere l’ordinazione presbiterale di uomini sposati – si è imposta a partire dal Concilio di Trento (1545-1563), ma ha seguito un percorso storico di discernimento le cui radici risalgono fino agli albori della Chiesa. Nei primi secoli molti ministri sacri erano sì sposati, ma erano tenuti allo stesso tempo alla pratica della continenza, una pratica risalente alla tradizione apostolica e che era stata motivata dai Padri con la raccomandazione di Paolo, secondo cui la continenza favorisce la donazione a Dio nella preghiera (1Cor 7,5).

Gli apostoli, per meglio conformarsi all’esempio di Gesù, scelsero infatti di lasciare mogli e figli per vivere in maniera fraterna e celibe o perlomeno continente, nel caso in cui fossero già sposati come Pietro. Cristo, che appariva già come “segno di contraddizione” (Lc 2,34) per i giudei di allora, per gran parte dei quali il celibato era una condizione umiliante (Gdc 11,37), scelse di farsi “eunuco per il regno dei cieli” (Mt 19,12) al fine di dedicare tutte le sue energie all’annuncio del regno di Dio, libero da qualsiasi legame familiare. E così visse nel celibato e nella continenza perpetua, senza generare figli, permettendo tuttavia alle donne, a differenza dei rabbini dell’epoca, di seguirlo e di ascoltare la sua parola, condividendo con lui un’amicizia autentica e matura.

Sulla scia di questa concezione della Chiesa apostolica, la prescrizione dell’essere sposati “ad una sola moglie” per i candidati all’episcopato, al diaconato (1Tm 3,2; 1Tm 3,12) e al presbiterato (Tt 1,6), secondo la spiegazione fornita da papa san Siricio (384-399) nelle decretali Directa (385) e Cum in unum (386) ci fa capire che in realtà, sin dal tempo della stesura delle lettere pastorali tradizionalmente attribuite a san Paolo, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi erano tenuti a mantenere la completa continenza.  Quindi tutti i diaconi, presbiteri e vescovi, indifferentemente dal fatto che fossero sposati, vedovi o celibi, dal giorno della loro ordinazione dovevano astenersi da ogni forma di attività sessuale e non dovevano generare figli.

A partire dal 200 d.C., fonti provenienti sia da Oriente che Occidente ci danno indicazioni su una sempre più frequente prassi di astinenza da parte dei chierici. A partire dal III secolo, la tendenza generale va così indubbiamente verso un clero celibe. In Occidente il documento legislativo più antico che prevede l’astinenza per i ministri sacri, pena la deposizione dal ministero, è il can. 33 del Concilio di Elvira, nella Spagna meridionale (306 c.a.). L’affermarsi del monachesimo nel IV secolo favorì poi probabilmente un approfondimento teologico dell’astinenza dei chierici.

Il X secolo, invece, fu caratterizzato da un notevole declino culturale e religioso, che portò all’abbandono quasi generale della pratica del celibato tra il clero. Successivamente, nell’XI sec. la riforma gregoriana incoraggiò la ripresa della disciplina, sancita poi durante il primo Concilio ecumenico del Laterano nel 1123, mentre il secondo Concilio Lateranense nel 1139 stabilì la nullità del matrimonio contratto dopo l’ordinazione. Il Concilio di Trento ribadì infine la possibilità del voto di castità e definì la maggiore dignità dello stato virginale.

2. Le Chiese orientali in comunione con Roma continuano a ordinare sacerdoti uomini sposati ma richiedono il celibato per l’episcopato oltre che per i monaci, come segno del grande valore che esso ricopre.

Nei primi secoli le Chiese d’Oriente hanno conosciuto, esattamente come quelle d’Occidente, l’astinenza dei chierici, come ci testimoniano in alcuni scritti sant’Epifanio, vescovo di Salamina, san Girolamo, uno dei maggiori Padri della Chiesa d’Occidente, e lo stesso imperatore Giustiniano.

Solo nel V secolo la linea comune si frantumerà. Questo processo ebbe inizio in Oriente con il distacco di gran parte delle Chiese non greche dalla Chiese dell’impero e si protrarrà nella Chiesa bizantina. Oggi praticamente tutte le Chiese orientali rifiutano sia una disciplina di astinenza, sia la disciplina celibataria seguita in Occidente. Attualmente, quindi, nelle Chiese orientali ci sono diaconi e sacerdoti sposati che mettono al mondo figli anche dopo l’ordinazione, pur permanendo elementi legati al celibato: come ad esempio il divieto delle seconde nozze, il divieto di sposarsi dopo l’ordinazione e soprattutto la scelta dei candidati all’episcopato fra coloro che vivono il celibato.

A fare da spartiacque fu il Sinodo bizantino di Trullo (691). A partire da quella data, infatti, in Oriente si permise l’uso del matrimonio ai chierici sposati quando non compivano il servizio all’altare, mettono così meno in evidenza il carattere della dimensione sponsale del sacerdozio. Di conseguenza, decadde in Oriente la celebrazione giornaliera dell’eucaristia da parte dei sacerdoti sposati, perché altrimenti avrebbero dovuto astenersi sempre dai loro doveri coniugali. La ricerca storica è quasi concorde nel ritenere che il sinodo trullano abbia fatto uso di testi manipolati o mal tradotti dei sinodi nordafricani del 390 e 401, contenenti pronunciamenti a favore della completa astinenza dei chierici, distorcendone poi il messaggio in senso contrario.

Ci sono buone ragioni, inoltre, per ritenere che la prassi comune a Oriente e Occidente, precedente al sinodo trullano, accettasse che i chierici provenissero in gran parte da candidati sposati e di età avanzata (presbiteri=anziani) a patto però che essi, d’accordo con la propria moglie, si impegnassero a vivere poi in totale e perpetua continenza. Già a quell’epoca, in cui non si era giunti a una teorizzazione teologica del celibato sacerdotale, si era intuito che il sacerdote doveva essere libero da ogni altro legalmente totalizzante per potersi donare alla Chiesa. Perciò come prima misura si richiese ai candidati sposati la continenza perfetta e addirittura si proibì la coabitazione con la moglie. Considerata la sconvenienza di proibire il rapporto coniugale a coloro che erano legittimamente sposati, l’evoluzione logica fu che nella Chiesa latina si tendesse sempre più a cercare candidati celibi.

La disciplina introdotta dal Sinodo di Trullo è comunque accettata dalla Chiesa di Roma, anche se la Sede Apostolica ha stabilito alcune restrizioni per i sacerdoti orientali che svolgono il loro ministero in Occidente. Recentemente, invece, la Chiesa siromalankarese e quella siromalabarese hanno liberamente ribadito l’esigenza del celibato per i loro sacerdoti.

Il celibato è una libera scelta d’amore in risposta ad un invito di Dio a seguire Cristo nel suo donarsi, anche nella carne, come “sposo della Chiesa”.

Per intendere correttamente il celibato come fondamento per la vita dei ministri della Chiesa e non come mera legge ecclesiastica, occorre andare alla sua radice teologica rintracciabile nella nuova identità che viene donata a colui che è insignito dell’ordine sacro.

Un contributo determinante per la definizione della perenne validità del celibato sacerdotale è stato offerto dal magistero dei pontefici, ben condensato dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1579. Ciò che balza agli occhi è come il magistero papale sul celibato, anteriore al Concilio Vaticano II, insista molto sull’aspetto sacrale del celibato e sul legame tra esercizio del culto e verginità per il Regno dei cieli, mentre quello successivo si apre a ragioni più cristologiche e pastorali. In particolare nell’enciclica Sacra Virginitas di Pio XII (1954) affermava che “se i sacerdoti […] osservano la castità perfetta, questo è in definitiva perché il loro Divino Maestro è rimasto egli stesso vergine fino alla morte”.

Giovanni XXIII nell’enciclica Sacerdotii nostri primordia (1959) poneva in evidenza il legame tra offerta eucaristica e dono quotidiano di se stessi anche nella carne attraverso il celibato e riconosceva come il disorientamento alla fedeltà e alla necessità del celibato ecclesiastico dipendesse dalla non corretta comprensione del suo rapporto con la celebrazione eucaristica.

Il Concilio Vaticano II, non potendo tenere conto dei contributi delle ricerche storiche degli ultimi decenni, al n. 16 della Presbyterorum Ordinis (1965) afferma che tra il sacerdozio ministeriale e il celibato non esiste un legame di stretta necessità ma di “molteplice convenienza”, fondando questo giudizio sulla raccomandazione di Gesù Cristo a seguire il suo esempio contenuta in Mt 19,12 così come le prerogative della verginità cristiana indicate da san Paolo (1Cor 7,25-40), che favorisce l’adesione totale a Cristo e testimonia la fede nella vita futura. La Lettera agli Efesini (5,21-33) descrive l’alleanza tra Cristo e la Chiesa con l’immagine del matrimonio, in cui lo “sposo” Cristo si è donato alla sua “sposa” per renderla tutta bella.

Il principale testo del magistero sul celibato sacerdotale è tuttavia l’enciclica di Paolo VI, Sacerdotalis caelibatus (1967) nella quale sottolinea il significato escatologico del celibato, e riconosce che “il prezioso dono divino della continenza perfetta per il Regno dei Cieli costituisce […] un segno particolare dei beni celesti” ed è indicato come “una testimonianza della necessaria tensione del Popolo di Dio verso l’ultima Meta del pellegrinaggio terrestre e incitamento per tutti a levare lo sguardo alle cose superne” (n. 34).

Giovanni Paolo II, nella esortazione apostolica Pastores dabo vobis (1992), coglie il dono del celibato nel legame tra Gesù e il sacerdote e per la prima volta menziona l’importanza anche psicologica di questo legame, ma soprattutto indica la “vita secondo lo Spirito” e il “radicalismo evangelico” come le due irrinunciabili linee direttrici del celibato.

Nel 2005, nel primo messaggio del suo pontificato, al termine della concelebrazione con i cardinali elettori nella cappella sistina, Benedetto XVI ha invece ribadito che “il Sacerdozio ministeriale è nato nel Cenacolo, insieme con l’Eucaristia”. Lo stesso papa, nel discorso in occasione dell’udienza alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi nel 2006, ha affermato che il vero fondamento del celibato “può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi, grazie ad un più intimo stare con Lui, a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di Fede: la Fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini”.

Nonostante i dibatti nati in seno e fuori la Chiesa, il celibato sacerdotale è stato sempre ribadito come un tesoro incalcolabile.

3. Nel corso dei secoli non sono mancati attacchi al celibato ecclesiastico, soprattutto da contesti e mentalità completamente estranee alla fede. Tentativi di una mentalità secolarizzata, figlia dell’Illuminismo e del modernismo, mirante a inquadrare la Chiesa in categorie sociali, a fare del sacerdote un semplice assistente sociale, privandolo della sua investitura soprannaturale.


Negli ultimi decenni, però, anche in seno alla Chiesa si è riacceso il dibattito sulla possibilità di abolire la disciplina del celibato per i sacerdoti. Sulla questione si sono espresse anche due assemblee generali del Sinodo dei Vescovi, nel 1971 e nel 1990, ribadendo il celibato come opzione libera e responsabile del sacerdote al servizio di Cristo e della sua Chiesa.

Il celibato è però tornato prepotentemente al centro delle discussioni anche in seguito agli scandali sessuali sui minori che hanno investito diverse Chiese nazionali. Una piaga questa, secondo quanto si legge in una Lettera circolare redatta dalla Santa Sede nel 2011 e indirizzata a tutte le Conferenze episcopali, che denota più una perdita della fede e una distorta comprensione del celibato. Per questo il documento invita a far sì che i candidati al sacerdozio “apprezzino la castità e il celibato e le responsabilità della paternità spirituale da parte del chierico e possano approfondire la conoscenza della disciplina della Chiesa sull’argomento”.

Parlando al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali a Roma, nel 1998, il cardinale Joseph Ratzinger evidenziò che la Chiesa “non può istituire essa stessa semplicemente dei ‘funzionari’, ma deve attendere la chiamata di Dio”. Si comprende quindi l’esortazione di Gesù a pregare “il padrone della messe che mandi operai” (Mt 9,38) e come egli stesso abbia pregato per una notte intera prima di chiamare i dodici apostoli (Lc 6,12-16).

Ecco allora, come ha sottolineato il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il clero, intervenendo a un colloquio ad Ars (Francia) nel 2011, che occorre “essere radicali nella sequela Christi senza temere il calo del numero dei chierici. Infatti, tale numero decresce quando si abbassa la temperatura della fede, perché le vocazioni sono ‘affare’ divino e non umano. Esse seguono la logica divina che è stoltezza agli occhi umani”.

Nel dialogo con i sacerdoti, durante la grande Veglia di chiusura dell’Anno sacerdotale il 10 giugno del 2010, Benedetto XVI ha sottolineato che “per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà”. “Uno scandalo che ha anche un aspetto positivo” – ha evidenziato sempre il papa tedesco nel libro-intervista con Peter Seewald, intitolato “Luce del mondo” – e che rappresenta “un affronto a quello che le persone pensano normalmente; qualcosa che è realizzabile e credibile se è donato da Dio e se attraverso di esso mi batto per il Regno di Dio”.

Difendere il valore del celibato sacerdotale significa quindi riscoprire questo dono, che ha in sé un compito e una chiamata ad amare eccedendo la misura dell’umano. Significa ancora fare di esso non una pratica eremitica, non una rinuncia negativa ma una scelta, un’affermazione gioiosa e fiduciosa dell’uomo che si affida a Dio.

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